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SE IL PAPA RE MI LEGGESSE! (2)

Grave la pedofilia ecclesiastica, ma più grave la prigionia della mente!

Frugando tra sbiaditi ricordi di un tempo che fu mi tornano in mente seriosi collegi del clero in cui fui prigioniero, come in uso negli anni sessanta. Però “convittore” era il modo con cui nell’annuale programma inviato alle famiglie s’indicava il futuro seviziato.
Il convittore, la cui casata spendeva discrete annuali fortune per mantenerlo al supplizio, non aveva diritto alcuno nella grand’acquisita famiglia retta dal prete. Anche il gioco nel parco, meritato riposo dopo le faticose scolastiche lezioni, era concessione del prete che decideva cosa fare di lui.

Nessuna cosa spontanea v’era in quei luoghi, perché lì, i giovani d’anni e di pensieri erano intristiti attraverso l’idea del peccato commesso, o anche solo pensato. Idea insindacabile in noi instillata dal “corvo” cui eravamo assegnati che quasi sempre aveva un ventre obeso, e il cuore in forma di salvadanaio.

Non v’era nemmeno allegria nelle preghiere svolte in cappella per ben tre volte il dì, e in più c’era l’angelus all’aperto.

Non v’era l’allegria che tra ragazzi si scatena, e che di se stessa già si rallegra. Ogni cosa era incolore. Sembrava che tutto fosse un vecchio film in bianco e nero per l’ossessivo mugugnar dei preti.

Anche avevamo mense separate. Dalla loro usciva l’odore del pane fresco, fragrante, ma anche d’intingoli che “il maestro di casa” preparava. Lo chiamavano così il valente cuoco al loro servizio. Noi ragazzi, invece, avevamo “Fulvio il Rosso”, ex operaio portuale che s’era dato alla culinaria, e non si chiamava nemmeno così. Fulvio faceva del suo meglio per non scuocere la pasta, ed anche per non carbonizzare la bistecca… ma proprio non era suo mestiere… E nemmeno gli erano d’aiuto le invocazioni a san Francesco Caracciolo (il patrono dei cuochi). Ma ciò che ricordo con più amarezza era proprio il pane per noi ragazzi mai fresco, anzi piuttosto stantio… Perciò, credo in giustificazione, ci raccontavano e raccomandavano di fare fioretti alla madonna e a san domenico savio, sicuramente la disperazione di qualsiasi sano e vispo ragazzino che si era trovato nelle sue vicinanze.

Ricordo che lo stormo degli uomini in gonna pretendeva che noi ragazzi fossimo umili, in altre parole sempre pronti a soccombere alle loro imposizioni che, asserivano: “Lo facciamo per il tuo bene”! Ma ciò avveniva anche mentre ancora puzzavano di libagioni assunte durante i robusti pasti, e qualcuno tra loro, con altri parlando, teneva in bocca uno stuzzicadenti con cui poi si nettava le unghia.

Ancora, tra gli altri, mi sovvengono il direttore e il catechista cui anche l’erba del parco “doveva dichiarare d’esser umile”, prima di far capolino nel parco. Strani figuri quei preti dentro quelle mura. Preti che insieme con il “consigliere” erano vicari del loro dio in terra.

Ancora inesperto, da poco arrivato, chiesi ad uno dei corvi perché lui era il vicario di dio, credevo d’averlo letto da qualche parte… e lo incalzai domandando perché si vestisse con quella buffa lunga gonna che mi ricordava quella della governante che accudiva la casa dei miei genitori. Ottenni per risposta un paio di sonori ceffoni e… fui subito “figlio di mignotta”.

Poi, più in là nel tempo, ebbero gli aguzzini la bontà di farmi sapere che solo il papa è il vicario di dio in terra, però loro ne sono i ministri. Curioso avrei voluto chiedere perché il papa fosse vicario e loro solo ministri … ma anche amavo sapere perché lui pure vestisse come il pagliaccio di un circo che ricordo comparve in uno spettacolo con lunga tonaca rossa e berretto a punta aperto in centro, ma mi astenni per…codardia davanti al nemico.

In ogni modo i miei giorni trascorrevano tra punizioni corporali, fioretti che cercavo sempre d’evitare, e mancate ricreazioni perché in punizione “all’angolo”. E sadicamente ogni prete che mi puniva aveva l’efferato piacere di portarmi sempre vicino ai cessi della corte da cui usciva odore non piacevole, e dove nel meriggio estivo il sole picchiava a più non posso. Altri ragazzi, solo casualmente puniti, erano messi seduti sotto un albero e potevano parlare ma non giocare, io invece dovevo essere evitato. Eh sì, in quei costosi ambienti era proprio difficile per me sopravvivere.

Altri ragazzi, i buoni, erano sempre appiccicati a uno dei preti, avevano imparato un trucco che proprio non mi andava d’imitare, per sopravvivere senza punizioni corporali si dimostravano assai proni, non so se fino a 90 gradi per ciò che si sente dire, di fronte a tutte quelle “ menti oscure” degli aguzzini i cui corpi erano ammantati dalle nere vesti talari dagli infiniti bottoni.

Ho sempre sostenuto che quelle sottane fossero nere come i loro pensieri, come solo ricorda chi in quei luoghi fu detenuto.

L’umiltà nostra, di ragazzi gioiosi ma umiliati nel corpo e nella mente, era premiata ed apprezzata quando dimostrava che eravamo divenuti abietti delatori d’insignificanti marachelle d’altri bambini, ed anche era molto accetta, quando decidevamo di nostra volontà di punire il nostro cattivo corpo mortificandolo con “fioretti” dedicati a questo e quel santo, però era bene che in massima parte fossero indirizzati alla madre di dio.

E fu proprio a causa della madre di dio che ottenni una tra le massime punizioni che per me gli uomini in gonna personalizzarono. In chiesa, durante la messa, fui costretto a stare in ginocchio sui ceci, ma poi decisero che per un losco figuro qual ero non era abbastanza perché non chiedevo “pietà”, e non mostravo umiltà. Così mi fecero inginocchiare, a calzoni rimboccati, sul sale grosso da cucina… e bruciava, ca…volo se bruciava.

Successe un dì, non so più quale, che come tutti i bambini curiosi chiesi al corvo di turno nella mia aula di studio (comune a tutti) perché dio avesse una madre; infatti, mi era chiaro, me lo avevano già bonariamente spiegato, che lui, eterno, aveva creato ogni cosa, dunque perché mai doveva avere una madre!

Non ottenni risposta, ma veleno tanto, subito divenendo anche sorvegliato speciale e soggetto a regime d’isolamento perché paria della fede. Ma, nonostante tutto, per loro pelosa bontà, e mia infelicità, non fui espulso dal carcere, troppo ricca era la retta pagata dai miei genitori, e perderla era sconveniente.

Ci spiegavano, gli uomini in gonna, senza permesso di dubbio, con vocine in falsetto che puzzavano d’aglio, che i nostri fioretti ci avrebbero fatto guadagnare il Paradiso, però se svolti insieme alla pratica della comunione assunta il primo venerdì d’ogni mese per nove di essi consecutivi. Questo, affermavano, non ci avrebbe tolto le tribolazioni che gli adulti subiscono, e, per aiutarci a capire, si dimostravano loro stessi inclini maestri nel porci come porci alla prova.

Sostenevano anche, i bacherozzi, che così saremmo stati soldati del Papa, vicini al suo cuore, e che lui avrebbe tanto pregato per la nostra anima.

Però, intanto, a tavola i camerieri ci portavano, come già lasciato intendere, paste e minestre poco condite, e pane stantio. Evidentemente il risparmio che l’economo dei bagarospi realizzava sui nostri pasti, però loro lo chiamavano “il sig prefetto”, era la nostra prova d’umiltà.

Era anche proibito parlare durante il pranzo, però ciò era concesso dopo che si fosse ascoltata la lettura di un passo evangelico o di un salmo, od anche la lettera di qualcuno indirizzata a qualcun altro.

Poi, per loro sfortuna, ma anche mia, un giorno punirono un prigioniero che aveva di soppiatto letto la lettera che una mamma inviava al suo pargolo detenuto.
Il prigioniero, pubblicamente reo confesso, fu battuto e lasciato al suo destino di cattivo soggetto. Fu per quell’insegnamento che, in successiva occasione, chiesi al sig catechista perché dovevo ascoltare la lettura, svolta da un chierico durante il pranzo, di una lettera di qualcuno che non conoscevo, ed indirizzata ad altri altrettanto sconosciuti. Dissi che non era giusto leggere le lettere altrui, come già sapevo, ma fui bastonato anche dal direttore, certo sacerdote don Nicola N. [Il nome completo lo tengo per me].
A mie spese scoprii, lo stesso giorno, quanto male fanno i reiterati colpi di una fine verga in quel posto sempre ombreggiato dai calzoni, e nell’occasione mi scoprirono, con mia massima onta, una mutandina di bianco cotone che presto fu macchiata di rosso.
L’aberrazione di quegli ambigui figuri si spingeva ben oltre, perché praticavano anche la censura della corrispondenza in arrivo ed in partenza, ciò, chiaramente, in ottemperanza al popolare detto: “Fate ciò che dico, ma non fate ciò che faccio”.

Così, mentre a noi reclusi era impedita anche la libertà di pensiero, gli uomini in gonna, gaudenti nei piaceri della tavola ed in… altro, però queste ultime sono faccende di cui non ho personali prove, ogni giorno di più demeritavano quel Paradiso dal profumo di rose che, mi rendevo già conto, era una balla che anche a loro dava fastidio.

Infatti, s’industriavano sulla terra per non farsi mancare alcunché, oh se s’industriavano.
Finalmente, più grandicello, scappai, fuggii, evasi da quel patibolo sfidando ben più serie e burrascose tempeste familiari, però, di quel tempo lontano qualcosa rimase nel mio intimo: “ Sì, scoprire quali e quante sono le bugie raccontate dai bagarospi in gonna pur già loro sapendo che tali esse sono”.

Perciò, adulto, m’iscrissi in teologia dopo altro tipo di studi, ma anche lì non ebbi miglior sorte, perché dopo qualche anno di solerte e studiosa frequenza un agostiniano dal viso degno d’apparire in un trattato di fisiognomica sui figli disconosciuti anche dalle battone praticanti per bisogno o per piacere mi fece cacciare dalla facoltà perché, sentenziò, ascoltato da altri come lui, però in clergyman: “Non è umile”.

Questi non poterono battermi, ma nei loro occhi il sadismo e la voluttà d’accendermi un rogo personale facendomi indossare la camicia di zolfo era facilmente leggibile.
Oggi, disintossicato, ma memore delle balle che mi raccontarono i ministri di dio vorrei proporre al papa, e ad ognuno, la lettura di una mia lettera aperta che a lui sarà inviata. Qualcosa del genere che segue, ma con più “peperoncino”.

Messaggio per il Papa Re.

L’appellativo d’intestazione è solo ridondante, ma, nonostante tutto, in questa nostra moderna società mi piacerebbe rivolgermi a Lei con l’appellativo di “signore”, così come s’usa in buone maniere, e ciò per dimostrarle che, se anche Lei s’atteggia a divinità infallibile, La potrei reputare un uomo come tutti gli altri per bontà del mio cuore, e per comprensione verso chi soffre di mania di grandezza.

Non ritenga, dunque, che voglia mostrarmi arrogante e lesivo nei suoi confronti, ché, al contrario, ho la massima disposizione d’animo per voler con Lei colloquiare, ma, mi consenta, dovrebbe per brevissimo tempo spogliarsi dei suoi circensi panni, perché, in caso contrario, mi scapperebbe da ridere vedendo solo un vecchietto che forse è imparentato con un famoso psichiatra tedesco, il sig Alzheimer.

Se potessi realmente con Lei colloquiare molte cose vorrei chiederle, ma non essendo ciò possibile, per sua indisposizione, mi affiderò a un futuro scritto che coordinerò in punti sequenziali.

kiriosomega

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