di Vittorio Lussana
E’ stato confortante assistere, di recente, alla bella inchiesta di Riccardo Iacona sull’emergenza abitativa a Roma nel corso dell’approfondimento televisivo ‘Presa Diretta’, trasmesso da Raitre. Confortante, perché il fatto che vi siano ancora dei colleghi che si dimostrano assai legati alle esigenze di singoli territori del nostro Paese rassicura, almeno in parte, sul fronte di una professione, quella del giornalismo, troppo spesso confusa con un mero ruolo di fiancheggiamento della ‘politique politicienne’. E rallegrante, in un certo senso, poiché il servizio di approfondimento presentato ha svelato una capitale d’Italia che proprio non riesce a stare al passo delle altre grandi metropoli europee, né ad affrontare alcuni suoi cronici problemi con la medesima lungimiranza, urbanistica e sociale, di Madrid o della stessa Parigi. Roma possiede il più grande patrimonio storico, culturale, monumentale e archeologico del mondo intero. Tuttavia, essa è anche una metropoli che ha sempre dovuto subire scempi devastanti, un esempio del tutto atipico di megalopoli totalmente priva di una vera e propria area metropolitana. Il territorio di pertinenza comunale si estende per più di 150 mila ettari: un’enormità rispetto ai 19 mila di Milano e ai 13 mila di Torino, un’area mai dotata di una ‘frangia semiurbanizzata’, da sempre affetta da un parassitismo incurabile, totalmente priva di infrastrutture economiche o di autonome capacità produttive. Sin dai tempi dello Stato pontificio, la città vive di redditi importati e non conosce praticamente nulla del capitalismo moderno. Dopo averla circonfusa con un ‘goffo’ alone di maestà, il regime fascista, ormai allo stremo, mediante una legge emanata nel 1941 tentò di dotarla di una zona industriale formata dai comprensori di Tor Sapienza – lungo la via Tiburtina – e di Grotte Celoni, sulla Casilina. Ma tutto rimase sospeso a causa del conflitto mondiale e, nell’immediato dopoguerra, quando il Consiglio comunale di allora si decise a riprendere in mano la questione, dopo lungaggini interminabili riuscì finalmente a varare un piano particolareggiato di opere pubbliche, ma quella decisione arrivò con un ritardo tale che i termini delle agevolazioni fiscali tesi a favorire nuovi investimenti erano ormai scaduti. E più nessuno si sognò di rischiare danaro in favore di lande desolate, che tali rimasero per altri lunghissimi decenni. A causa di ciò, Roma e l’intera area regionale laziale non hanno mai potuto possedere delle vere industrie in grado di assorbire il proprio irrimediabile tasso di disoccupazione. Sin dal 1870, l’area è stata investita da possenti ondate migratorie, ma essendo totalmente sprovvista di ogni ‘valvola di sfogo’, tutto ha finito col ricadere irrimediabilmente su Roma, che ha finito col diventare la vittima designata del piccone e della cazzuola: ogni metro quadrato di suolo è stato considerato fabbricabile, case e palazzi hanno iniziato a protendersi verso l’alto nella più totale assenza di vincoli urbanistici e nella più allegra inosservanza delle poche norme vigenti provocando un’assurda dilatazione a ‘macchia d’olio’. Già durante il fascismo, quando gli ‘sventramenti’ di Marcello Piacentini avevano espulso brutalmente i ceti popolari dal centro storico, iniziarono a sorgere, lugubri e malsane, le ‘borgate’, quelle descritte con tanto dolore da Pier Paolo Pasolini: seguendo il modello di Acilia, scaraventata nel 1924 all’interno di una ‘sacca malarica’ lungo la via Ostiense, tra il 1930 e il 1940 l’Istituto per le case popolari e altre società immobiliari hanno in seguito costruito i quartieri di Villa Gordiani, Valmelaina, Tufello, Tiburtino III, Pietralata, Quarticciolo, Trullo, Primavalle, tutti arcipelaghi sconnessi e urbanisticamente incoerenti, ai quali sono stati in seguito affiancati i reclusori, assolutamente abusivi, di San Basilio, Prenestina, Tor Pignattara, Tormarancio e Centocelle. Deputate ad accogliere gli immigrati più poveri, queste borgate non vennero affatto ‘addossate’ alle ultimi propaggini della città, bensì risultavano separate da lunghe strisce di verde ‘brado’, terreni che poi, nel dopoguerra, improvvisamente cominciarono a salire di prezzo, scatenando una speculazione edilizia senza scrupoli. Se si considera che tra il 1945 e il 1975 Roma è stata invasa da circa due milioni di italiani provenienti da ogni parte del Paese, in particolare dalle regioni del Mezzogiorno, si può ben comprendere come certi suoi ‘acciacchi’ abbiano finito col generare una situazione complessiva assolutamente invivibile, che ha totalmente privato la ‘città eterna’ di un suo quadro sociale effettivo: ogni rione è stato trasformato in un satellite a sé stante e le periferie rappresentano solamente degli enormi ‘quartieri dormitorio’. Quei due milioni di nuovi romani giunti dall’Abruzzo, dalla Campania, dalla Calabria e dalla Sicilia dovettero adattarsi all’offerta di lavoro propria di una megalopoli di burocrati, di consumatori e di turisti: il 60% entrò nell’amministrazione dello Stato, il 16% venne impiegato nei settori del commercio e dei trasporti, il restante 24% non poté far altro che lasciarsi assorbire dai sempiterni e onnipresenti cantieri edilizi. L’arretratezza delle attività terziarie ha permesso loro, talvolta, di perpetuare l’artigianato delle regioni di provenienza. Per cui, gli abruzzesi sono diventati calzolai, i molisani arrotini, i sardi pasticcieri e così via. Ma se si eccettuano coloro che sono entrati a far parte della Pubblica Amministrazione – in larga parte siciliani – la maggioranza di quegli immigrati ha potuto solamente adeguarsi alla precarietà stagionale del mestiere di muratore. Una città come Roma, ricca di un ghiotto bottino di parchi privati e con un patrimonio senza eguali di beni artistici e archeologici da salvaguardare, necessitava di un piano regolatore che ne salvasse le ultime vestigia dagli artigli di costruttori senza scrupoli. Anche perché, orrendi agglomerati ‘intensivi’, sin dagli anni ’50 del secolo scorso, la stavano letteralmente afferrando ‘alla gola’, mentre una lottizzazione selvaggia delle aree prospicienti l’Appia antica segnalava come molti ricchi della ‘Roma bene’, ormai stanchi e disamorati dei Parioli, si erano fatti costruire ville lussuosissime incastonando tra le pareti numerosi ruderi archeologici ritrovati in mezzo ai prati. Perciò, nel 1954, il Consiglio comunale decise finalmente di incaricare un Comitato tecnico – formato da ottimi urbanisti, quali Ludovico Quaroni e Luigi Piccinato – con il compito di anticipare i nuovi lineamenti di una razionale ‘capitale del futuro’. Nel novembre del 1957, il nuovo piano era pronto: per rompere l’accerchiamento delle speculazioni, arrestare la macchia d’olio dell’abusivismo edilizio e alleggerire il peso insostenibile della mole di servizi che grava, da sempre e quasi interamente, sulla città, esso prevedeva un’espansione verso sud est da realizzarsi attraverso una grande arteria di scorrimento munita di centro direzionale. Inoltre, allo scopo di dirottare un traffico in entrata e in uscita interamente scaricato – esattamente come oggi – sulle strade consolari, quel piano disegnava un sistema viario imperniato sulla costruzione di un primo tratto dell’attuale Grande Raccordo Anulare e, nell’intento di porre un freno al saccheggio dei parchi massacrati (Villa Chigi, Villa Savoia, Villa Torlonia, Villa Doria – Pamphili) imponeva una conservazione rigorosa di tutto il centro storico, oltre a una serie di espropri di pubblica utilità. Quel ‘piano’ non era stato nemmeno presentato ufficialmente che subito alcuni esponenti degli ‘interessi lesi’ inscenarono una mezza sommossa: i commercianti gridarono alla spoliazione, la Società generale immobiliare si ‘stracciò le vesti’ accusando il Comitato tecnico di attentare alla proprietà privata, gli enti ecclesiastici, che da secoli possiedono alcuni loro ‘feudi’ alla periferia occidentale (in particolar modo i Salesiani) spronarono i propri ‘protettori’ in Campidoglio. Risultato: l’allora maggioranza consiliare, guidata dal sindaco Urbano Cioccetti e costituita da democristiani, liberali, monarchici e missini, negò a quel piano la propria approvazione e, nel giro di due anni, ne fece predisporre un altro, redatto da docili funzionari, che avviò uno sviluppo urbanistico verso sud ovest, in ‘direzione mare’, mantenendo la strutturazione monocentrica della città, riducendo il progetto di costruzione dell’anello autostradale a mero segmento della ‘Autosole’, nonché approvando un sostanziale accrescimento della città per ‘addizioni spontanee’ che ‘santificarono’ definitivamente la crescita a ‘macchia d’olio’ con una gigantesca sanatoria tutti gli scempi compiuti. Dopo un decennio di ‘massacri’ inauditi e solamente ‘all’alba’ del 1962, una nuova amministrazione di centro – sinistra riuscì ad approntare un piano regolatore finalmente ragionevole, che introdusse criteri sino ad allora sconosciuti alla storia urbanistica della città dei 7 colli: il principio della ‘destinazione d’uso’, con il quale si obbligarono i piani particolareggiati a specificare le attività consentite nelle diverse zone (centro storico, trasformazione edilizia, ridimensionamento viario e così via); il parametro della ‘superficie utile’, che permise di eliminare gli innumerevoli ‘trucchi’ legati al cosiddetto ‘rispetto dei volumi’ prescritto nel 1959; il concetto di una progettazione unitaria per comprensori, da attuarsi mediante consorzi fra i proprietari, in ossequio a precise norme riguardanti la densità e la percentuale dei suoli assegnati a residenza o a servizi quali scuole, strade, verde, asili, ospedali e parcheggi. Ma anche quei buoni propositi valsero a poco: il ricorso continuo a uno stillicidio di varianti, la macchinosità delle procedure, una sfacciata violazione delle regole fondata sul convincimento che nulla di ciò che era stato costruito potesse essere demolito, vanificò quel nuovo ulteriore ‘piano’ e, nel 1964, i romani furono perfino costretti ad assistere alla devastazione del parco di Castel Fusano e alla trasformazione in zona residenziale del recinto della tomba di Cecilia Metella. Ecco quali vicende hanno trasformato Roma in una città ostica e invivibile, in cui attraversarla per andare da un suo capo all’altro diviene un’impresa epica, dove le sue vecchie linee ferroviarie sotterranee hanno dovuto attendere, in media, 25 – 30 anni per essere realizzate e quelle nuove vengono generalmente considerate, da sempre, solamente un lontano ‘miraggio’ che andrà a vantaggio delle future generazioni. Chiunque vincerà le prossime elezioni regionali del Lazio dovrà essere chiaramente consapevole di dover rappresentare una lucidità che discende direttamente dalla ‘rabbia’, perché siamo tutti stanchi di vedere una folla anonima che si accalca sugli autobus o le corriere extra – urbane nelle ore di ‘punta’, che mangia nelle tavole calde a orari prestabiliti, che cammina spedita per la strada a passo militare, che la sera ha solamente il tempo di guardare un po’ di televisione, che fa all’amore frettolosamente negli abitacoli delle automobili. Perché la coazione a consumare, a consumare soprattutto noi stessi, significa solamente sciupare l’unita del nostro ‘io’ interiore, corrisponde a una forma di dissociazione che ci condanna alla solitudine di massa, perché una nuova forma di ‘sociabilità collettiva’ rappresenta un valore, spirituale e materiale, che deve essere assolutamente difeso.
Direttore responsabile di Periodico Italiano
(editoriale tratto dal web magazine www.periodicoitaliano.info)