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Gli unti dal potere politico, intoccabili di professione

di Pierfranco Pellizzetti, da Il Fatto Quotidiano

Nel recente affaire bolognese innescato dalle spregiudicatezze del sindaco Flavio Delbono, come in una miriade di altre piccole e grandi vicende analoghe, che portano alla luce un uso allegro del pubblico denaro come l’utilizzo improprio (privato) di strutture e beni pubblici, il primo aspetto che salta agli occhi è l’infastidito stupore con cui reagisce il personaggio “pizzicato”. Il suo immediato assumere un atteggiamento da “nume offeso”.

Si tratta solo di crassa arroganza, di spudorata incoscienza da impunito, o non piuttosto tali vicende rivelano qualcosa di ben più grave, come una sorta di “perdita del senso di realtà”? Quasi una sorta di estraneazione?

Lo si intuisce quando capita di bazzicare le sedi istituzionali della politica, locali come nazionali, e subito ci si ritrova immersi in una sorta di acquario irreale, dove gli eletti del popolo nuotano allegramente, mischiati tra loro senza distinzioni di coloriture partigiane. Magari assiepandosi attorno alla buvette.

Come se i professional della politica fossero convinti di aver subito un processo evolutivo che li ha trasformati in entità superiori, con relativa insindacabilità dei propri comportamenti da parte – per così dire – delle razze inferiori; accompagnata alla certezza della propria invulnerabilità.

Poi, quando il mondo reale fa irruzione in questo regno dorato (magari un articolo di giornale non troppo ossequioso; peggio ancora, un’indagine giudiziaria) e lo scudo magico si frantuma, allora i presunti intoccabili vengono subito ridimensionati alla taglia di competenza; non di rado corrispondente alle dimensioni di omarini annichiliti dalla fine dell’incantesimo. Che immediatamente si giustificano balbettando giaculatorie sulla “sacralità del Politico”. Balbettio che spiega l’origine del fenomeno.

Silvio Berlusconi ha raggiunto livelli parossistici al riguardo, proclamando che l’essere stato eletto dal popolo corrisponde all’unzione divina. Eppure tale cortocircuito argomentativo, palese distorsione psicologica, discende da un fenomeno più esteso e radicato, tanto a destra quanto a sinistra; ben anteriore alla discesa in campo dell’Unto.

Cioè il vantaggioso pregiudizio che l’appartenere alla corporazione dei controllori del consenso democratico assicura automaticamente la trasmigrazione nell’empireo dei privilegiati, impunità compresa. Dunque, non sacralizzazione della politica quanto – piuttosto – deificazione del partito. Con relative solidarietà corporative, che scattano subito a difesa di ogni membro minacciato.

Una certezza dura a morire. Soprattutto per coloro che, nella decomposizione della forma-partito così come l’abbiamo conosciuta in passato, si sono acquartierati in quelle stanze ormai fatiscenti. Soprattutto per una tipologia umana che da quella militanza ha tratto di ché vivere; non di rado agi, prestigio e status. Lussi che, dovendo trovarsi un lavoro, mai si sarebbe potuto permettere.

L’idea fantasmagorica – coltivata da chi “sta dentro” – che non corrisponde minimamente al giudizio di tutt’altro tenore espresso da quelli che “stanno fuori”.
Nasce da qui la dissociazione dal mondo della vita che diventa estraneazione, con tutte le conseguenze in materia di percezione e rappresentazioni del reale.

Per cui il momento del voto sarà dipinto come una sorta di ordalia, quando ben se ne conoscono gli infiniti pilotamenti distorsivi da parte delle nomenclature, al fine di assicurare la propria sopravvivenza sub specie aeternitatis. L‘infinita sequenza di episodi che si sono tradotti nella messa al bando del nome sgradito attraverso i marchingegni della compilazione delle liste. Per arrivare all’odierno Porcellum, con cui non ci sono più candidati alle elezioni ma solo “designati”. E già stiamo assistendo alle mille manfrine, in occasione delle prossime consultazioni regionali, per aggirare i vincoli minimi esistenti, tipo la non ripresentabilità allo scadere dei due mandati.

Per questo, sempre di più, gli abitanti dei mondi della vita considerano i presunti rappresentanti alla stregua di vere forze di occupazione, allontanandosi precipitosamente dai riti di una partecipazione ormai fittizia. Indubbiamente il partito canonico ha svolto in passato funzioni positive, dall’organizzazione dei movimenti sociali alla costruzione di legature interpersonali; a una fondamentale opera pedagogica di accompagnamento alla democrazia. Ma tali funzioni si sono andate esaurendo, sostituite dall’autoreferenzialità; dal mummificarsi del personale professionale in élite del potere.

Così sono emerse in tutta la loro evidenza le attuali perversioni del professionismo politico. In primo luogo l’anacronismo: in un mondo che si dichiara flessibile, i politici risultano gli unici beneficiati dal posto sicuro. In un tempo che pretende l’informazione trasparente, le (sedicenti) organizzazioni della democrazia reclamano il proprio diritto all’opacità, alla non ispezionabilità.

Sicché, come scriveva Ralf Dahrendorf poco prima di morire, «venendo meno le ideologie distintive, i partiti assomigliano sempre di più a gruppi tribali, in cui l’appartenenza conta più del credo». Mentre il rispetto della legge e la decenza sono questioni che riguardano altri.

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