Gian Maria Fara: "C’è una ‘terza Italia’ che produce e non odia nessuno"

di Vittorio Lussana

L’Eurispes è uno dei principali centri di studi politici, economici e sociali del Paese che ogni anno pubblica, attraverso la casa editrice Eurilink, il ‘Rapporto Italia’, un’attenta analisi sullo stato della politica, dell’economia e della società italiana. Il suo presidente è Gian Maria Fara, sociologo, direttore del Corso di Laurea in Studi Politici e delle Relazioni internazionali presso la Link Campus University of Malta, docente di Sociologia Generale presso la stessa Università e di Scienze dell’Opinione Pubblica presso la Lumsa. Proprio in occasione della presentazione del nuovo Rapporto Italia 2010 abbiamo avuto modo di incontrarlo per un parere esaustivo sulla situazione complessiva del nostro Paese.

Presidente Fara, l’attesa per l’uscita del Rapporto Italia 2010 dell’Eurispes quest’anno si era fatta quasi spasmodica. In particolar modo si vuol sapere se e a quali condizioni l’Italia riuscirà a emergere, nel corso di quest’anno, dalla crisi economica e ad agganciare la ripresa: lei cosa può anticiparci al riguardo?
“Lo scorso anno noi dell’Eurispes fummo i soli a sostenere che la crisi finanziaria non avrebbe inferto colpi irreparabili all’economia italiana. Così, mentre molti economisti prevedevano sventure, noi vedevamo possibile una sia pur lieve ripresa già a partire dalla fine del 2009. I fatti dimostrano che le nostre analisi erano corrette, libere da pregiudizi. Bastava guardare la realtà delle cose per capire che le peculiarità strutturali del nostro sistema finanziario ed economico, nel bene e nel male, ci avrebbero tenuto ai margini della tempesta che si stava abbattendo sugli Stati Uniti, sul Regno Unito e su una parte dell’Europa. Il risparmio e la forte capitalizzazione delle famiglie, la tradizionale riluttanza delle banche all’erogazione del credito, un sistema bancario composto, per fortuna, anche da piccoli istituti fortemente legati al territorio e poco avvezzi alla proiezione internazionale, un sommerso che il nostro Istituto valuta intorno al 35% del Pil ufficiale e tanto altro ancora, hanno svolto, come noi stimavamo, una funzione di ammortizzazione. Naturalmente, eravamo consapevoli che il nostro sistema avrebbe subìto comunque dei danni, giacché nel tempo della finanza globale il ‘default’ di pezzi interi del sistema finanziario anglo – americano non poteva non produrre ricadute anche nel nostro Paese. La più grave è stata probabilmente la stretta creditizia attuata da molte banche, con la conseguente chiusura di numerose piccole imprese e attività professionali e commerciali e la perdita di un consistente numero di posti di lavoro. In ogni caso, la lettura del sistema economico e produttivo italiano è diventato più complesso, poiché sfugge alle tradizionali e spesso obsolete metodologie di indagine: la complessità non può essere ridotta a slogan o a parole d’ordine, bensì richiede spiegazioni inevitabilmente più articolate”.

Ma qual è il vero punto debole del 'Sistema – Italia', le inefficienze dello Stato o una politica che non riesce proprio a decidere?
“Direi che sostanzialmente sembra mancare un’idea di società verso cui indirizzarsi: il modello di sviluppo elaborato dalla classe dirigente italiana nel dopoguerra si era praticamente esaurito con la fine della prima Repubblica, dopo aver trasformato un Paese agricolo in una delle prime dieci potenze economiche. Quel modello era basato su un diffuso reticolo di imprese manifatturiere che trasformavano materie prime importate, un compito che oggi viene assolto, nel quadro di un’economia globalizzata, da giganti come la Cina e l’India e a costi molto più bassi. La fine di quel modello coincise con la fine di una classe dirigente. Ma il fatto è che, da allora, l’Italia è diventata una sorta di ‘cantiere aperto’ che non si riesce a chiudere, perché nessuno ha le idee chiare su che cosa si debba costruire. Un cantiere popolato da una moltitudine di litigiosi ‘aspiranti architetti’ che non riescono a mettersi d’accordo poiché, in definitiva, non hanno nessun vero interesse a che i lavori partano e si concludano. Questi sono i figli e i padroni di una ‘transizione infinita’, interessati, più che alla prospettiva, al mantenimento dello statu quo. Ma la competizione ormai avviene tra sistemi, non tra imprese. E ciò richiama a uno dei nodi cruciali: la mancanza di politiche industriali. Oggi, per poter competere a livello internazionale e cercare di mantenere gli stessi livelli di sviluppo del passato, serve un progetto di sistema, una grande capacità di proiettarsi nel futuro, idee che siano in grado di restituire a tutti, imprenditori e cittadini, l’entusiasmo del fare e del costruire”.

E’ sbagliata l’impressione che molti hanno di un Paese completamente fermo?
“Negli ultimi quindici anni l’Italia è cambiata profondamente, nel bene e nel male, anche se in una maniera del tutto spontanea. Mentre il Veneto, la Lombardia, l’Emilia Romagna diventavano la macroregione più ricca d’Europa, la Calabria e alcune altre zone del Mezzogiorno sono diventate ancora più povere, precipitando in un sottosviluppo alimentato e governato da organizzazioni criminali. Tuttavia, anche nel Mezzogiorno si segnalano punte di eccellenza e di crescita, come nei casi di alcune parti della Puglia e della Sicilia. In ogni caso, si è inceppato quel meccanismo che in passato aveva funzionato come una sorta di ascensore sociale e che consentiva all’operaio di aprire una bottega artigiana, all’artigiano più intraprendente di diventare un piccolo industriale, ai giovani, anche di modesta condizione sociale, di accedere, attraverso l’Università, alle professioni e ai ruoli direttivi e, quindi, di diventare ceto medio. C’erano politiche volte a favorire, anche grazie all’accesso al credito, l’innovazione, la creazione di nuove imprese, la valorizzazione della creatività italiana. Si era affermata l’idea che l’Italia andasse avanti “nonostante la propria classe dirigente” e ciò, in parte, era vero. Ma col passare degli anni e le trasformazioni epocali che hanno investito i modi e i tempi della produzione, con la globalizzazione commerciale e finanziaria e l’affermarsi della società della comunicazione e dell’informazione, tutto è stato messo in discussione, anche lo spontaneismo che aveva alimentato la crescita del Paese”.

Quali riforme andrebbero impostate d’urgenza per rilanciare il nostro Paese? Quelle strutturali o quelli istituzionali?
“L’Italia può contare su una quantità incredibile di imprese, di istituzioni, di intelligenze in grado di competere e di dare lezioni al resto del mondo. Abbiamo spesso parlato di un Paese che non riesce a trasformare la potenza in energia, che non riesce a valorizzare tutte le sue qualità. Persino all’interno del vituperato mondo della sanità esistono settori di eccellenza che non hanno uguali in Europa. La vera involuzione ha riguardato, in questi anni, le istituzioni e la politica, che non hanno saputo accompagnare le trasformazioni economiche, culturali e sociali. Anzi, si può ragionevolmente affermare che la politica e le istituzioni abbiano, per lunghi tratti, addirittura ostacolato il dispiegamento di tutte le energie di cui il Paese dispone. Non si è trattato della decisione scientifica di ostacolare il cammino di nessuno. Più semplicemente, si è preferito non scegliere mai o, meglio, si è pensato di poter far convivere tutto con il suo contrario. Ciò è il frutto di una ‘pseudocultura’ della compatibilità, che postula il lavoro del lunedì con lo ‘sballo’ del sabato sera, che la precarietà possa convivere con la sicurezza sociale, che lo sviluppo turistico possa andare d’accordo con il degrado del territorio. Sul fronte della gestione delle risorse, la pretesa è ancora quella di accontentare tutti con la “politica dei coriandoli” fatta di finanziamenti ‘a pioggia’ indipendentemente dagli obiettivi e dai risultati. Mentre gli altri Paesi europei elaboravano serie ed efficaci politiche industriali, investivano con lungimiranza nelle nuove tecnologie e nei settori strategici, la spesa pubblica italiana veniva dispersa nel sostenere iniziative senza futuro. Lo spreco diffuso che caratterizza la nostra spesa ha dunque creato una situazione non più governabile. E gli sforzi di Tremonti vengono del tutto vanificati dalle voragini aperte dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni, diventati ormai centri di spesa incontrollabili. La promessa di abolire le Province nel momento in cui si trasferivano vaste competenze alle Regioni è stata totalmente disattesa, anche se quest’azione potrebbe far risparmiare diversi miliardi di euro. Così come sarebbe ora di chiudere gli inutili uffici di rappresentanza delle Regioni in giro per il mondo. Il Texas, che è grande due volte l’Italia, non ha alcuna “ambasciata” all’estero: il federalismo è una cosa seria e non può essere moltiplicatore di posti, prebende e sprechi. Anche in questo caso stiamo pagando il prezzo dell’improvvisazione, di un’improvvida riforma del Titolo V della Costituzione. Questo è un argomento che richiede la massima chiarezza: lo sviluppo delle Autonomie locali era ed è nell’interesse del Paese. La storia stessa dell’Italia sarebbe stata probabilmente meno tormentata se fosse stata imboccata la strada del federalismo seguendo la grande intuizione di Carlo Cattaneo. L’Italia è sempre stata culturalmente federale e avrebbe potuto seguire un percorso virtuoso all’interno di un disegno complessivo razionale. Invece, si è proceduto, come spesso accade, per strappi successivi e alla cieca. E sono stati attribuiti alle Regioni compiti che, in alcuni casi, si sovrappongono a quelli dello Stato centrale. E ciò ha già dato vita a un vasto contenzioso che si traduce in una sostanziale paralisi di alcuni settori strategici come, ad esempio, quello dell’approvvigionamento energetico. Si è deciso che l’Italia rientri nel nucleare e che quindi dovrà dotarsi di un certo numero di centrali, ma le Regioni hanno il potere di veto sull’ubicazione degli impianti. Come del resto già accade per i rigasificatori o per le stesse centrali alimentate dai combustibili tradizionali. Più in generale, nessun ‘paletto’ è stato posto sull’impiego delle risorse pubbliche. Sicché, la gran parte della spesa regionale è costituita dai cosiddetti impieghi correnti che, in buon sostanza, si riducono ai costi di apparato. Dunque, tutti i peggiori difetti dello Stato centrale vengono riprodotti in ogni Regione con poche eccezioni, legate alle qualità di qualche singolo amministratore”.

Quali rischi sta correndo la democrazia italiana?
“L’assenza di un progetto coerente di riforme e di modernizzazione delle istituzioni ha prodotto una serie di modifiche occasionali delle regole del gioco le quali hanno stravolto la Carta costituzionale e alimentato una pericolosa confusione. Gli schieramenti politici che si contrappongono hanno introdotto, ad esempio, la prassi di indicare nel simbolo riprodotto sulla scheda elettorale i nomi dei rispettivi candidati alla presidenza. Così gli italiani pensano, impropriamente, di eleggere direttamente il Capo del Governo senza che la Costituzione sia mai stata modificata in tal senso. I due schieramenti hanno apportato, surrettiziamente e di comune accordo, una radicale modifica delle attribuzioni del parlamento e del presidente della Repubblica. Ma hanno anche costruito un modello di Governo che non è la Repubblica presidenziale americana, né il cancellierato tedesco o il semipresidenzialismo francese, piuttosto un qualcosa che finisce per somigliare vagamente a una caricatura del Governo del Primo ministro del Regno Unito. È utile ricordare che la Costituzione in vigore prescrive in modo esplicito e netto che il presidente del Consiglio venga scelto dal Capo dello Stato e votato dal Parlamento. Siamo di fronte a un conflitto, che talvolta cova sotto le ceneri e talvolta divampa, tra un presidente della Repubblica che ha sul suo scrittoio la Costituzione così com’è e un presidente del Consiglio che si sente investito di un mandato diretto da parte della maggioranza degli elettori. Appare evidente che un Capo del Governo eletto direttamente dal popolo non potrebbe essere sostituito se non attraverso nuove elezioni ed è proprio questa la convinzione di Berlusconi e dei suoi sostenitori. Proprio questa convinzione ha ispirato il cosiddetto Lodo Alfano che intendeva sottrarre il Capo del Governo, insieme alle più alte cariche dello Stato, all’eventuale giudizio della magistratura, sino al termine del mandato, così come avviene in altri paesi europei. La Corte costituzionale ha bocciato il Lodo, una volta per il merito ignorando il metodo, la seconda, al contrario, per il metodo ignorando il merito. Decisioni, sul piano formale, più che legittime, ma in contraddizione tra di loro. Ma c’è da chiedersi come mai la Corte stessa, che ha il compito di difendere la Costituzione, o meglio gli insigni giuristi che la compongono, non abbiano battuto neppure un ciglio quando i due principali schieramenti hanno di fatto violentato la Costituzione introducendo il cosiddetto ‘leaderismo’ che chiamava esplicitamente le italiane e gli italiani ad eleggere direttamente il Primo ministro. Oggi, alcune tra queste distratte vestali della Costituzione non perdono occasione per ricordarci che la nostra sarebbe una Repubblica parlamentare. E queste stesse vestali non si sono neppure accorte che l’istituzione parlamentare veniva umiliata e declassata attraverso una legge elettorale che consente ai leader politici di nominare i deputati e i senatori di propria fiducia, sottraendo questa scelta agli elettori, con ciò invertendo, di fatto, le regole della democrazia. In una parola, in Italia, ormai, siamo passati da un Parlamento degli eletti ad un Parlamento di ‘nominati’: la democrazia parlamentare è stata cancellata con una semplice legge elettorale. E, quel che è peggio, i nostri leader politici e i tanti soloni che pontificano sulla Costituzione hanno fatto finta di non sapere quello che il buonsenso e la lezione di Piero Calamandrei avevano insegnato: le leggi elettorali hanno sempre rilevanza costituzionale. Con l’aggravante che la lezione di Calamandrei era stata ripresa e ribadita con forza da due valorosi costituzionalisti di orientamento culturale diverso come Gianni Ferrara e Guglielmo Negri. Sono rimasti inascoltati. Ma, d’altra parte, il loro limite era quello di essere due studiosi indipendenti e di non confondere la loro missione con gli interessi di una parte. Oggi, ci troviamo al centro di un ‘pasticcio’ che prefigura esiti inquietanti. È evidente che un leader che si sente chiamato dal popolo a guidare il Paese non voglia, e forse neppure possa, accettare l’idea di essere esautorato da una sentenza della magistratura. E questo rimane un nodo centrale e ineludibile della realtà italiana”.

Eppure, secondo i dati del Rapporto Italia, sembra crescere il consenso dei cittadini verso alcune istituzioni, come ad esempio le Forze dell’ordine o lo stesso Capo dello Stato: ciò come dev’essere interpretato?
“Ciò significa, come ebbe a scrivere Massimo Gramellini, che esiste “una terza Italia, maggioritaria e senza rappresentanza, che comprende milioni di cittadini di destra e di sinistra, stanca e confusa, che la brutalità del bipolarismo costringe ogni volta a schierarsi con quella delle altre due che, in quel momento, sembra il male minore. Questi italiani ‘terzi’ non odiano nessuno e hanno un mucchio di cose da dirsi: sarebbe ora che cominciassero a farlo”. Questa terza Italia, insomma, vorrebbe una classe dirigente che sappia capire e interpretare le attese, le vocazioni, i bisogni veri del Paese, una classe dirigente che sappia indicare una mèta, degli obiettivi, un percorso di crescita e di sviluppo”.

Un’ultima domanda, di profilo sociologico: l’Italia sta diventando un Paese razzista?
“Tutto dovrebbe ricondurci a una riflessione più onesta e serena sul fenomeno dell’immigrazione, considerando il fatto che essa possa costituire una ricchezza e un’opportunità anche per il nostro Paese, così com’è stato per altri. Basti pensare a quei Paesi dove la presenza e l’apporto di culture, etnie e religioni diverse hanno determinato la nascita di una civiltà e di una ricchezza straordinarie. Il problema vero è che su un tema delicato come questo occorre liberarsi dai pregiudizi e dalle visioni ideologiche e agire con pragmatismo e intelligenza. Deve esser chiaro che i nostri ospiti debbano rispettare le nostre leggi. E questa considerazione dovrebbe essere la bussola che orienta ogni politica sull’immigrazione. Intanto, senza le centinaia di migliaia di badanti straniere la qualità della vita dei nostri anziani e di tante famiglie sarebbe messa in discussione. Si ritorna, dunque, alla questione del progetto: abbiamo una qualche idea su come costruire un processo di integrazione che riesca, nello stesso tempo, a salvaguardare la nostra cultura senza annichilire le identità altrui? Può l’Italia, anche imitando le esperienze migliori di altri Paesi, far diventare la presenza di tante culture diverse una risorsa economica e sociale? La risposta è positiva, ma solo se il problema sta dentro un progetto e un disegno complessivi che riescano a immaginare l’Italia dei prossimi decenni. Se invece lasceremo ingovernato un fenomeno come questo, vi sarà chi penserà a gestirlo e a sfruttarlo, anche politicamente, per indebolire la nostra democrazia. Guai poi se a strumentalizzarlo fossero le associazioni mafiose. Purtroppo, anche sull’immigrazione si procede per schieramenti contrapposti. Anzi, succede che una questione così delicata venga utilizzata strumentalmente attraverso slogan e semplificazioni che alimentano un clima di divisione, di separatezza, quando non di odio, nella stessa opinione pubblica. E mentre ciò accade, non possiamo non dolerci della povertà che esprime il dibattito politico italiano”.(Laici.it)

(intervista tratta dal quindicinale cartaceo 'Periodico Italiano', del 4 febbraio 2010)

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