“L’armadio della vergogna e Cefalonia ovvero la scoperta dell’ acqua calda”

Da anni si parla dell’ “Armadio della vergogna” come di una realtà assodata malgrado un’apposita Commissione Parlamentare ne abbia dichiarato l’assoluta insussistenza. Ma i comunisti sono fatti così: le loro menzogne sono l’unica incontestabile verità anche quando sono smentite dai fatti. Di seguito un mio vecchio ma sempre attuale articolo del 2001 sulla vicenda la cui riproposizione si rende necessaria per controbattere le affermazioni dell’esperto di ‘armadi’, il ‘guru’ della Sinistra Franco Giustolisi, anche riguardo ai fatti di Cefalonia. Preciso anche che TUTTI i documenti citati nell’articolo sono parte integrante del mio Archivio. Buona lettura.
Massimo Filippini
“Gli strali della sinistra comunista si sono, di recente, appuntati sull’esistenza di un “complotto” che “insabbiò” le indagini sui responsabili tedeschi degli eccidi commessi a Cefalonia, attuato, nel 1956, dalla Magistratura Militare in combutta con il potere esecutivo che, attraverso il Ministro degli Esteri Gaetano Martino – padre dell’attuale Ministro della Difesa – ed il Ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani , si sarebbe adoperato –venendo ricambiato – affinché i Magistrati Militari, in particolare il Procuratore Capo dr. Santacroce, affossassero la relativa inchiesta per evitare di mettere in cattiva luce il buon nome dell’esercito tedesco che si apprestava ad entrare nella NATO.
L’esistenza della “combine” politico-giudiziaria, sarebbe provata, appunto, dalle risultanze di un carteggio Martino – Taviani rinvenuto in un armadio, ribattezzato “della vergogna”, situato nella sede della Corte d’Appello Militare di Roma: l’autore della “scoperta” –il giornalista Franco Giustolisi- di indiscussa militanza comunista, ne ha fatto il proprio cavallo di battaglia , additando alla pubblica esecrazione non solo i sunnominati Ministri, ma anche la Magistratura Militare che, prestandosi al gioco, cioè “insabbiando” l’inchiesta, avrebbe, di fatto se non addirittura consapevolmente, agevolato i criminali tedeschi autori delle stragi di Cefalonia.
Con la baldanza di chi ha fatto una scoperta da tramandare ai posteri, il Giustolisi ha riportato, infatti, su “L’Espresso” del 16/11/2000, l’intervista fatta al sen. Taviani, poco prima che questi passasse a miglior vita, titolandola “SI, HO INSABBIATO CEFALONIA – Anno: 1943. Nell’Egeo ( era lo Jonio, Giustolisi, ndr ) i tedeschi massacrano 6.500 soldati italiani. Un eccidio che non sarà mai punito in nome della ragion di Stato”..
In detto articolo, il Nostro scrive: “…Finita la guerra, familiari delle vittime e superstiti si batterono perché i 31 militari responsabili di quell’eccidio venissero processati. Niente da fare, la politica pose il veto. Era l’ottobre del 1956: Martino, liberale, ministro degli Esteri, scrive a Taviani, dc, ministro della Difesa (facevano parte del governo presieduto da Antonio Segni, anche lui dc), proponendogli in sostanza l’affossamento di ogni percorso di giustizia. Questo in nome della resurrezione della Wehrmacht, necessaria alla Nato in funzione anti – Urss.”
Alla lettera del ministro Martino, Taviani rispose apponendovi in calce, poche ma, secondo Giustolisi, significative parole, ( ”Concordo pienamente con il ministro Martino” ), seguite dalla sua sigla e con ciò “consentì l’affossamento della giustizia”…
Questa, in sintesi, la “scoperta”, che, alla luce delle considerazioni che seguono, può, ben a ragione, definirsi “ dell’acqua calda”.
Passando, infatti, a dimostrare il nostro assunto, rileviamo anzitutto, che egli ha scritto di “familiari delle vittime e di superstiti” che si batterono perché i 31 responsabili tedeschi venissero processati: ciò non è vero poichè chi si “battè” affinché si facesse giustizia sui fatti di Cefalonia – NEL LORO COMPLESSO – cioè per accertare e punire TUTTE le responsabilità penali da essi emergenti – non solo di militari tedeschi, ma ANCHE ITALIANI – fu soltanto una persona cioè il dottor Roberto Triolo, padre di un sottotenente della Guardia di Finanza, fucilato, tra l’altro, insieme con il Padre dello scrivente.
Di conseguenza, se parlare di “familiari e di superstiti” è cosa non vera, assai più grave è l’aver fatto cenno solo ai 31 militari tedeschi – individuati dal Triolo – come possibili autori delle stragi e non anche ai 27 militari italiani indicati come autori di altri reati –ovviamente diversi da quelli dei tedeschi- ma pur sempre afferenti alla vicenda di Cefalonia, i quali, in applicazione delle norme procedurali sulla c.d. “connessione dei procedimenti” vennero rinviati a giudizio congiuntamente ai primi: per chi non parla a vanvera come taluni giornalisti ignoranti ed alcuni storici faziosi, ma conosce il diritto, come lo scrivente, in tale “ iter giudiziario” furono applicate, in modo conforme alla legge, le norme procedurali, e quindi, non è ravvisabile nulla di scandaloso, come si è malignamente insinuato dai predetti personaggi ignoranti e/o in malafede.
Ma c’è di più. L’autore della “scoperta”, parlando di “familiari e superstiti”, ha omesso di menzionare proprio il dottor Roberto Triolo, cioè l’unica persona alla cui instancabile opera di denuncia di tutte le malefatte avvenute a Cefalonia, si dovette l‘individuazione dei suddetti responsabili italiani (27) e tedeschi (31), con ciò determinando nel lettore del suo articolo un’idea errata sull’andamento delle indagini.
Fuori dai piedi, pertanto, un galantuomo come il Triolo e dentro l’ormai 88enne Taviani, sedicente “affossatore” di processi e di indagini che, in barba alla sua qualità di Presidente dei Partigiani Cattolici, qualora la “scoperta” di Giustolisi fosse fondata, si sarebbe macchiato, tenendola nascosta fino alla vigilia della sua dipartita, dell’infamante colpa di aver agevolato l’impunità degli assassini tedeschi, il tutto stranamente raccontato da Giustolisi senza particolare acrimonia verso il defunto senatore, forse in considerazione del fiero antifascismo che il “de cuius” non mancò mai di mostrare, naturalmente dopo il 25 luglio1943 .
Riteniamo utile rammentare, in questa sede, un brillante articolo di Mario Cervi –riportato nel sito www.cefalonia.it – il quale ha esattamente rilevato che la separazione tra poteri –anche in un paese disastrato come l’Italia del dopoguerra- non avrebbe consentito, come infatti avvenne, che il preteso “insabbiamento” avvenisse, stante l’indipendenza del Potere giudiziario, cioè della Magistratura, Ordinaria e Militare, dal Potere esecutivo: con la conseguenza che il carteggio tra i due Ministri, rappresentò una “dichiarazione di intenti”, di certo poco edificante, ma sicuramente non produttiva di effetti al di fuori degli stessi interlocutori.
A motivo di ciò, abbiamo definito quella di Giustolisi la “scoperta dell’acqua calda”, e ciò apparirà ancor più evidente alla luce del fatto che sia il Pubblico Ministero dr. Piero Stellacci, nella sua Requisitoria finale del 20 marzo 1957, che il Giudice Istruttore gen. Carlo Dal Prato, nella Sentenza Istruttoria, dell’8 luglio 1957 con cui venne posto fine -in modo vergognoso- al procedimento penale contro i 27 militari italiani, (tra cui Pampaloni ed Apollonio), imputati di gravissimi reati, mostrarono di conoscere bene, menzionandoli nei loro atti, i documenti “scoperti” da Giustolisi di cui, peraltro, non tennero alcun conto, il primo nella Requisitoria ed il secondo nella Sentenza istruttoria.
Da tali documenti si evince, infatti, che il carteggio tra i due Ministri, costituente il nocciolo della “scoperta” di Giustolisi, era ben noto ai due Magistrati che lo richiamarono ampiamente negli atti in questione, a proposito delle difficoltà che resero loro impossibile ottenere l’estradizione, dalla Germania in Italia, dei presunti colpevoli di nazionalità tedesca.
A dimostrazione di ciò, riportiamo testualmente quanto entrambi scrissero riferendosi agli atti di istruttoria compiuti dalla Magistratura Militare – anche prima di detto processo – e purtroppo non approdati ad alcunché di concreto non per “insabbiamenti” o “pateracchi”, di cui va farneticando la sinistra nostrana, ma esclusivamente per insormontabili difficoltà oggettive, di natura diplomatico – giuridica, che non consentirono di fare giustizia appieno.
Alle pagine 109 e segg. della Requisitoria, infatti, il P.M. Militare, dottor Piero Stellacci, scrisse :
” Non è a dire che non si sia fatto il possibile per la identificazione e il rintraccio di tutti gli imputati, come di seguito si dimostrerà, ma bisogna prendere atto che la fatica è riuscita in gran parte vana. Se il programma consigliabile era apparso quello di apprendere, attraverso gli interrogatori dei tedeschi già identificati, almeno le generalità degli altri, sono venuti a mancare i presupposti per la realizzazione del programma stesso. Né si possono ritenere note persone per le quali si rinviene in atti appena una tenuissima traccia, quale un nome enunciato una volta o due, senza che si sappia se sia o meno esatto e soprattutto se risponda a un uomo fisicamente certo. (…).
Già nella sentenza del G.I.M. (Giudice Istruttore Militare), in data 7 agosto 1952 si ricorda come, per la identificazione e la consegna di alcuni militari tedeschi, fosse stata inoltrata richiesta alla apposita Commissione delle Nazioni Unite, con nota 1188 del 28 marzo 1946, dalla Procura Generale Militare, tramite il Ministero degli Affari Esteri.
Con altra nota, però, del 27 settembre 1948, la stessa Procura Generale Militare comunicava che il Consolato d’Italia a Bad Salzuflen aveva fatto presente che, per ottenere l’estradizione dei militari tedeschi responsabili dei fatti di Cefalonia, era necessario corredare la domanda delle relative testimonianze, sì da dimostrare trattarsi di un caso di evidente responsabilità.
La Procura Militare trasmetteva, allora, con nota del 7 ottobre 1948, una nuova domanda corredata di tutti gli elementi emersi nel corso della già compiuta istruzione, segnalando anche altri nomi denunciati nel frattempo, e raccomandando anche il rintraccio dei testi tedeschi che venivano indicati.
Inutilmente, sicchè, con la stessa sentenza di cui si tratta, constatato che era mancata la identificazione delle persone indicate come responsabili, si dichiarava non doversi procedere per essere rimasti ignoti gli autori del reato.
Nel corso della successiva istruzione formale (si tratta del procedimento avviato nel ’56 e concluso nel ’57, ndr) ulteriori tentativi sono stati compiuti. Notizie venivano, anzitutto, richieste all’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Ma tale Ufficio (se si escludono informazioni, del resto modeste, sul conto del generale Lanz, del generale Speidel, del ten. Col. Barge, del maggiore von Hirschfeld, del tenente Fauth e del sottotenente Rademaker) comunicava che: “Nessuna altra notizia si rileva dagli atti circa i comandi tenuti dagli ufficiali tedeschi di grado più elevato, dal 15 al 26 settembre 1943, aventi giurisdizione sulle isole di Cefalonia e Corfù, e circa la loro eventuale partecipazione, diretta o indiretta, al massacro dei prigionieri italiani; non risulta parimenti se essi siano ancora tutti in vita, né la loro attuale residenza”; e precisava: “La documentazione dell’ Ufficio relativa ai fatti di Cefalonia del settembre 1943 è limitata a dichiarazioni di militari reduci rese dopo il loro rientro in patria, mancando qualsiasi relazione di comandanti di grado elevato, tutti deceduti. Le notizie che da essi si rilevano, generiche e imprecise, non contengono dati sufficienti a individuare con chiarezza i criminali germanici e i singoli crimini da loro commessi. In particolare, non si è in grado: di stabilire da quale comandante di grande unità sia stato trasmesso l’ordine di Hitler di eseguire le fucilazioni in massa degli italiani prigionieri di guerra; di accertare i nomi dei dipendenti gerarchici del predetto comandante di grande unità, che l’abbiano ritrasmesso o fatto eseguire materialmente l’eccidio; di fornire ulteriori dati atti all’identificazione degli imputati germanici” (vol.XII, pag. 50 e segg.).
Non si è mancato allora, di interessare (vol. XIII, pag. 64 ) il MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI, ma tale Ministero, dopo avere “ attentamente esaminata la questione “, rispondeva che “anche a prescindere da considerazioni di carattere politico che porterebbero a sconsigliare di promuovere l’estradizione dei militari anzidetti (ritenuti responsabili della esecuzione dei noti eccidi commessi a Cefalonia e Corfù), tenuto conto del lunghissimo tempo trascorso dall’epoca in cui i fatti si sono verificati, nonché della circostanza che buona parte (?) dei militari incriminati risulterebbe essere già stata giudicata e condannata dalle Corti Alleate nell’immediato dopoguerra“, doveva ritenersi l’estradizione stessa NON PROPONIBILE in virtù delle disposizioni in vigore tra l’Italia e la Germania (vol. XIII, pag. 88).
Vero è, infatti, che con scambio di note effettuato a Roma il 1° aprile 1953, tra il Ministro per gli Affari Esteri della Repubblica Italiana e l’Ambasciatore della Repubblica Federale di Germania, è stato rimesso in vigore tra l’Italia e la Germania, con decorrenza dal 1° marzo 1953, il trattato di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale stipulato a Roma il 12 giugno 1942 (e reso esecutivo nello Stato italiano con la L. 18 0ttobre 1942, n. 1344), AD ESCLUSIONE del paragrafo 2 dell’art. 4 del trattato stesso. Detto paragrafo stabiliva : “Agli effetti del comma precedente (il comma precedente dispone che “l’estradizione non è concessa per i delitti politici e quelli commessi per prepararli o aventi comunque connessione con tali delitti”), non sono considerati come delitti politici i delitti seguenti, compreso il tentativo: a) i delitti dolosi contro la vita; b) le lesioni dolose che mettono in pericolo la vita o cagionano un grave danno all’integrità od alla sanità della persona offesa; c) i delitti che mettono in grave pericolo la collettività”.
Interpellato lo stesso Ministero degli Affari Esteri perché fossero almeno richieste in via diplomatica alla Repubblica Federale germanica le complete generalità dei militari tedeschi anzidetti (vol. XIII, pag.91), si faceva presente, in risposta, che “non era possibile richiedere alla Repubblica Federale germanica, in via diplomatica, le generalità dei militari oggetto della presente corrispondenza, né la eventuale conferma dell’avvenuto decesso di qualcuno degli imputati, senza specificare il motivo di tale richiesta. NE’ SI VEDE SU QUALE BASE POTREBBE ESSERE AVANZATA UNA RICHIESTA IN TAL SENSO, ESSENDO STATO RICONOSCIUTO CHE LA RICHIESTA DI ESTRADIZIONE DEI MILITARI TEDESCHI IN QUESTIONE NON E’ PROPONIBILE” (vol. XIII, pag. 110). (REQUISITORIA P.M. pagg. 109 e segg.).
Queste, dunque, le argomentazioni del Pubblico Ministero dalle quali soltanto chi è ignorante e, soprattutto, in malafede, come la maggior parte di coloro che da qualche tempo si occupano dei fatti di Cefalonia, potrebbe trarre illazioni strumentali, spargendo veleni su inesistenti complotti orditi dai Giudici Militari dell’epoca.
Quanto affermiamo, trova, altresì, conferma nella Sentenza “ istruttoria” emessa l’8 luglio 1957 dal Giudice Istruttore Militare Designato, gen. Carlo Del Prato, nel procedimento penale contro i già menzionati militari italiani (27) e tedeschi (31) imputati, a vario titolo, di reati commessi a Cefalonia dall’8 al 25 settembre 1943.
Di tale sentenza siamo stati accaniti critici, nel libro “La vera storia dell’eccidio di Cefalonia”, per lo scandaloso “proscioglimento istruttorio” , (non “assoluzione” a seguito di dibattimento, si badi bene) degli imputati italiani, pronunciato nonostante le evidenti prove di colpevolezza emergenti dagli atti istruttori, ma, per quanto concerne le difficoltà riscontrate nel procedere contro gli imputati tedeschi, non possiamo non essere d’accordo con quanto in essa scrisse il G.I., a pag. 80 e segg.:
“(…) Con successiva nota n. 11142 / P.O. in data 29 settembre 1956, in cui venivano elencati gli attuali imputati tedeschi, il Giudice Istruttore militare designato interessava il Ministero degli Affari Esteri – Affari Politici – Ufficio I – per sapere se fosse stato o meno possibile interessare, in via diplomatica, la Repubblica Federale Germanica, per procedere alla loro identificazione ed eventualmente di altri militari tedeschi che fossero risultati responsabili dell’eccidio di Cefalonia.
Si chiedeva, inoltre, al predetto Ministero di far conoscere se, a seguito di tali accertamenti, nel caso di emissione di mandati di cattura nei confronti di quelli che fossero risultati responsabili della fucilazione in massa di 450 ufficiali e 5.500 uomini di truppa italiani, appartenenti quasi tutti a reparti della divisione “Acqui”, già catturati come prigionieri di guerra, avvenuta tra il 15 e il 26 Settembre 1943 nelle isole di Cefalonia e di Corfù, fosse stato o meno possibile ottenere l’estradizione dei colpevoli, unendo alla domanda la relativa documentazione.
Ciò perché, con scambio di note effettuato a Roma il 1° Aprile 1953 tra il Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Italiana e l’Ambasciatore della Repubblica Federale Germanica, era stato rimesso in vigore tra l’Italia e la Germania, con decorrenza dal 1° Marzo 1953, il Trattato di Estradizione e di Assistenza Giudiziaria in materia penale firmato a Roma il 12 Giugno 1942, AD ESCLUSIONE DEL PARAGRAFO 2 DELL’ART.4 DEL TRATTATO STESSO.
L’ABOLIZIONE DI DETTO PARAGRAFO NON CONSENTIVA PIU’ LA ESTRADIZIONE NEMMENO PER I DELITTI DOLOSI CONTRO LA VITA, CHE NON ERANO CONSIDERATI DELITTI POLITICI.
Avendo il Giudice Istruttore Militare Designato chiesto, con la stessa nota, copia della sentenza che per crimini di guerra, tra cui l’eccidio di Cefalonia, era stata emessa nel novembre 1947 dalla V Corte Americana in Norimberga nei confronti dei generali LANZ e SPEIDEL, il predetto Ministero, trasmetteva, in visione e con carico di restituzione, il volume XI delle sentenze emesse dal Tribunale Militare in Norimberga dal titolo: “ TRIALS OF WAR CRIMINALS BEFORE THE NUERNBERG MILITARY TRIBUNALS ” – “ THE HIG COMMAND CASE “ – “ THE HOSTAGE CASE “.
Con telespresso n.12531 in data 19 Novembre 1956 (v.foglio 88 – vol. XII ), il Ministero degli Affari Esteri – D.G.A.P. – Ufficio 2°, in risposta alla suddetta richiesta, comunicava quanto segue: “anche a prescindere dalle considerazioni di carattere politico, che porterebbero a sconsigliare di promuovere l’estradizione dei militari tedeschi, imputati di crimini di guerra, tenuto conto del lunghissimo tempo trascorso dall’epoca in cui i fatti si sono verificati, nonché della circostanza che buona parte dei militari incriminati risulterebbe essere già stata giudicata e condannata dalle Corti Alleate nell’immediato dopoguerra, si concorda con il parere espresso in proposito dal Ministero della Difesa, NEL SENSO CHE L’ESTRADIZIONE STESSA NON SIA PROPONIBILE.”.
Ciò in conseguenza anche dell’emendamento apportato, con decorrenza dal 1° Marzo 1953, al paragrafo 2 dell’art.4 del Trattato sopra citato.
Con successivo telespresso n.12/204 del 7 Gennaio 1957, lo stesso Ministero degli Affari Esteri faceva presente che non era possibile richiedere alla Repubblica Federale Germanica, in via diplomatica, nemmeno le generalità dei militari tedeschi, imputati di crimini di guerra, né la eventuale conferma dell’avvenuto decesso di qualcuno di essi ( tra cui l’HIRSCHFELD ), senza specificare il motivo di tali indagini, tanto più che non si sapeva su quale base appoggiare simili richieste, non essendo proponibile quella di estradizione“.
Concludendo, alla luce di quanto sopra esposto, si può tranquillamente affermare che fu del tutto ineccepibile l’operato dei Magistrati Militari dell’epoca verso i quali, pertanto, si rivelano infondate le accuse di connivenza con il potere politico per insabbiare le indagini su Cefalonia: se mai tentativi in tal senso ci furono, risulta chiaro, alla luce di quanto s’è visto, che essi furono opera solo di politici a conferma che l’intrallazzo e la menzogna sistematica furono la caratteristica principale dell’Italia nata dalla Resistenza.
Non se la prenda, dunque, Giustolisi; un infortunio sul lavoro può capitare a chiunque. L’importante è non perseverare.

Massimo Filippini.

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