Sui crimini dei partigiani in Umbria

Stefano Fabei

C’è un saggio sulla guerra civile in Umbria che ha recentemente destato e continua a suscitare molte polemiche e tanto acide, quanto infondate, denigrazioni, da parte degli ultraconservatori custodi del sacro dogma resistenzialista. Il libro, che qualche inquisitore contemporaneo vorrebbe dare alle fiamme, è I giustizieri di Marcello Marcellini (Mursia, Milano 2009, Euro 15,00). La colpa dell’autore – che ha esercitato per quarant’anni la professione di avvocato civilista, acquisendo una vasta esperienza nel settore – è di aver ricostruito, sulla base di un’incontestabile documentazione, le intricate vicende che videro protagonista la brigata partigiana «Antonio Gramsci», impegnata nel 1944 in un’area compresa tra l’Umbria e il Lazio, per la precisione nel territorio appenninico delle province di Terni e Rieti, contro le forze armate tedesche e della Repubblica Sociale Italiana.
Nel periodo in cui le armate alleate stavano risalendo la penisola, ma non erano ancora giunte nell’area in questione, la suddetta brigata – una delle più consistenti ed efficienti del centro Italia, costituita da un forte nucleo originario di comunisti cui dopo l’armistizio si erano uniti sbandati, renitenti alla leva e slavi provenienti dal carcere di Spoleto – fu responsabile di rappresaglie nelle località di Polino l’11 marzo, Ferentillo il 26 aprile, Montefranco il 4 maggio e Morro Reatino il 18 maggio 1944, ai danni sia di esponenti fascisti sia di civili non impegnati nei combattimenti, almeno sette persone. I responsabili, processati dopo il 1945, vennero assolti, in primo o in secondo grado, in quanto le loro furono riconosciute come «azioni di guerra o di lotta contro il fascismo»; sulla base della legislazione allora in vigore si trattava di atti legittimi, tutt’al più da amnistiare. In realtà, pur contestualizzando il periodo in cui quei fatti avvennero come successivo a venti anni di dittatura fascista, gli omicidi, le sevizie, le violenze brutali, per quanto siano stati successivamente ammantati, non senza una certa dose di ipocrisia, di connotati politici, restano una macchia indelebile nella nostra storia nazionale e certo non giovano all’immagine della resistenza. Ma i fatti sono i fatti e compito dello storico è raccontarli per quello che effettivamente sono stati, non per quello che farebbe piacere fossero.
Che le vittime siano state in certi casi uccise a bastonate e pugnalate, o evirate, che ai cadaveri siano stati asportati gli occhi, sono e rimangono comunque dei crimini infami, in ogni contesto e indipendentemente dalle buone intenzioni e dai nobili fini di chi li ha compiuti. Negare queste tristi pagine di storia, certificate e verificabili sulla base della documentazione giudiziaria conservata negli archivi e delle testimonianze orali rilevate sui luoghi interessati, come fa l’autore del libro, polemizzare faziosamente contro di esso, lungi dal raggiungere l’effetto desiderato, di stroncare il testo, ottiene solo l’effetto contrario, quello di pubblicizzarlo e focalizzarlo all’attenzione di un’opinione pubblica sempre più restia ad accettare, senza batter ciglio, verità preconfezionate soprattutto su certi argomenti.
Il testo è diviso in due parti: nella prima sono narrati i delitti commessi con la certezza dell’impunità da chi, in un vuoto di potere determinato dall’iniziale crollo del regime fascista repubblicano aveva quale obiettivo principale quello di seminare il terrore nella popolazione e riprendere il controllo del territorio; nella seconda c’è la cronaca dei processi che seguirono e qui il lettore è portato a porsi l’interrogativo se fu fatta effettivamente giustizia. La risposta non è difficile da indovinare. I procedimenti giudiziari si svolsero, infatti, in un clima imbarazzante e si conclusero in un nulla di fatto. Quei crimini vennero riconosciuti quali azioni di guerra o amnistiati in base ai provvedimenti adottati proprio per legittimare quanto verificatosi durante la guerra civile. Determinante fu anche la volontà di farla finita al più presto col passato ed evitare di dare alle forze della sinistra un pretesto per accusare i magistrati di stare al servizio dei «conservatori» e dei «reazionari». Qualche integerrimo magistrato, piuttosto che fare giustizia, ritenne preferibile non prendere decisioni che sarebbero risultate sgradite a quelle forze politiche che avevano fatto la resistenza… in nome della ragion di Stato. Ma da che mondo è mondo, così va la storia: Guai ai vinti!
Il libro, frutto di un molto accurato lavoro di ricerca, ha anche il pregio di essere godibilissimo per lo stile dell’autore, pacato e antiretorico. Si legge tutto d’un fiato come un romanzo.

giovanna.canzano@alice.it
338.3275925
Giovanna Canzano – © – 2010

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