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DEMOCRAZIA MERCATO E SOCIETA’

Come sosteneva Tucidide, se vogliamo capire il presente dobbiamo analizzare il passato. E’ partendo da questa premessa che vorrei parlare di economia con l’intento di provare a rovesciare il paradigma dominante per il quale il sistema economico non conosce altra legge che quella del mercato, cosa che oserei definire “amorale”, fondata sulla legge della domanda e dell’offerta, con conseguente riduzione di ogni cosa a merce. Un sistema, diceva Bobbio, in cui non è dato distinguere tra quello che è indispensabile e quello che non lo è, sempre Bobbio, un sistema in cui non si è vista sulla scena della storia altra democrazia che non sia quella coniugata con una società di mercato, ma è necessario rendersi conto che l’abbraccio del sistema politico democratico con il sistema capitalistico è insieme vitale e mortale, o meglio è mortale anche se vitale.
Ma facciamo un passo indietro, partiamo da una breve analisi sul capitalismo, Che ha le sue radici nel medioevo dove il mondo rurale comprende i tre quarti della popolazione; il signore che impone la corvèe, il fattore che paga il suo affitto, l’oste ai margini del bosco rappresentano tipologie sociali “classiche” dell’età medievale, come il servo o il domestico. Non le sole, però, e in questo caso rivolgeremo l’attenzione alle città, perché in città le condizioni di sviluppo economico sono più stabili, per la possibilità di ampliare un giro d’affari o la vicinanza di una clientela agiata, perché circola più denaro in modo più regolare. Nasce la concezione del “giusto prezzo”, ossia, a seconda delle condizioni del mercato, il consuetudinario e sempre equo rapporto fra il costo di fabbricazione e il prezzo di vendita, il ricavo insomma, è la base portante della buona mercatura, la regola d’oro della mentalità dell’epoca. I canonisti ammettono che alla fatica e al servizio compiuti debba corrispondere un guadagno che deve però rimanere molto modesto, lucrum moderatum, come avrebbe detto Tommaso d’Aquino. Ed è l’esistenza di un simile freno nella ricerca del massimo guadagno possibile è appunto ciò che impedisce di applicare all’età medievale tutti i caratteri attribuiti al sistema capitalistico.
Sarà la cultura protestante a dare una nuova connotazione al capitalismo. Max Weber nel celebre trattato: “L’etica protestante” cerchèrà di comprendere il mondo moderno, in particolare la società industriale e capitalista, ciò che fece fu definire la misura in cui la religione aveva contribuito alla formazione ed espansione dello spirito del capitalismo, osservando la unicità dell’occidente, l’aspirazione a un guadagno sempre rinnovato, ossia alla redditività. L’organizzazione capitalistica del lavoro umano, la separazione dell’azienda dalla casa. Il problema non sta nelle origini stesse del capitalismo, ma piuttosto nell’ascesa del capitalismo borghese con la sua organizzazione del lavoro libero. Weber era interessato alla borghesia, alle sue origini e come uno spirito o un’etica economica riflettessero un insieme di idee religiose. Egli riteneva che lo spirito del capitalismo implicasse un’etica o un senso del dovere, in particolare un dovere verso una “vocazione”.
Questo spirito del capitalismo era in deciso contrasto con l’atteggiamento tradizionale secondo il quale la gente lavora incessantemente per fare profitti, spingendosi molto oltre i bisogni e lasciandosi guidare da motivazioni autoimposte del tipo “il tempo è denaro”. Se lo spirito del capitalismo non poteva essere spiegato dal desiderio del lusso, non poteva neppure spiegarsi con le condizioni materiali. La risposta stava in due idee religiose protestanti: “vocazione e predestinazione”. Weber dimostrò come un insieme di idee religiose influenzò il modo in cui la gente lavorava, spendeva il suo denaro e organizzava la sua vita economica. Il risultato di una particolare forma di comportamento economico a base religiosa contribuì al sorgere della forma occidentale di capitalismo che ha dominato l’economia mondiale per tre secoli, lungo questi binari i capitalisti e lavoratori occidentali condurranno le proprie vite.
Secondo il modello Weberiano l’agire sociale riflette i significati culturali nel tentativo di spiegare il più ampio mutamento sociale, in particolare ci interessa per collegarci all’attualità lo sviluppo del capitalismo nella concezione Taylorista messa poi in atto da Ford nel regime produttivo dei primi anni trenta del dopoguerra.
Due fenomeni considerati nello schema keinesiano, assumono rilevanza: la rigidità dei tassi di interesse verso il basso, e la rigidità dei salari verso il basso. Sono due meccanismi in cui il mercato si assesta in una forza di equilibrio, ma avendo sottoccupazione per aumentare il reddito nazionale secondo keines può intervenire lo stato. La produzione viene organizzata da grandi imprese, la società taylorista si caratterizza come una società semplice, di ceto medio con connotazione trasversale a tutte le classi ad avere aspirazioni ad uno stile di vita da “ceto medio”, in cui acquista peso il consumo, la disciplina e la produttività del lavoro, la crescita dell’istruzione, il lavoro domestico da parte delle donne. E’ una cultura orientata ad allargare gli orizzonti temporali, la progettualità, tutto ciò che nei sistemi pre-keinesiani era caratteristica dei ceti medio alti.
Il taylorismo necessita di masse di lavoratori in buona salute e il lavoro domestico femminile diventa una garanzia al sostentamento dell’uomo in una società in cui domina il modello famigliare Male Bread-Winner: l’uomo procacciatore di reddito per tutta la famiglia che è di tipo nucleare con divisione del lavoro e a tempo indeterminato. Si ha un allungamento degli orizzonti temporali collegato oltre che allo sviluppo dei consumi, anche a una capacità di risparmi e all’esigenza di disciplinamento dei lavoratori, teoria taylorista della “plebaglia”, secondo la quale gli individui sono rozzi, ignoranti e motivati solo dal guadagno; si hanno sanzioni che equivalgono alla perdita di salario.
Parametro di sconto intertemporale, ossia l’importanza che ogni individuo dà al proprio futuro.
Soggetti impazienti Soggetti pazienti
Tendono a dar poco peso al futuro Non c’è svalutazione del domani
Il valore della sanzione è in rapporto a questi due “tipi”, nella società fordista abbiamo tipi di interazioni favorevoli ai desideri e credenze con spinte di tipo egualitario di opportunità di carriera, questo introduce tensioni all’interno del regime fordista-Keinesyano, si ha una mobilità intergenerazionale, con una forte discriminazione delle donne nel mercato del lavoro con conseguente welfare italiano di tipo familistico, matrimoni precoci con elevati tassi di fertilità.
Il requisito fondamentale è il lavoro a tempo indeterminato per gli uomini, modello che poi entrerà in crisi per cause endogene:
-tendenza all’omofilia
-deriva dell’ egualitarismo
-diffusa aspirazione ad uno stile di vita di ceto medio
– necessità di risorse
-crisi dell’impresa fordysta per saturazione dei mercati
-i beni di consumo di massa non sono ad alta tecnologia quindi si affacciano al mercato i paesi asiatici
– si ha il fenomeno della stagflazione: aumento dei prezzi e riduzione della domanda di lavoro con conseguente disoccupazione dovuta a concause la sospensione della convertibilità del dollaro in oro, creando grande svalutazione; passaggio al just-in-time, sistema produttivo che garantisce la continua e perfetta simmetria tra l’offerta dei beni prodotti e la domanda che proviene dal mercato è una idea semplice che consiste nel produrre merci finite al momento opportuno per inserirle nei sottogruppi, e i materiali acquistati per trasformarli al momento opportuno in parti. Le conseguenze che si ottengono con questo modo di produrre sono opposte a quelle della produzione di massa, che punta su economie di scala attraverso la fabbricazione prolungata e uniforme di un dato prodotto e il rigido rispetto delle quantità programmate con largo anticipo. Il sistema just-in-time rende possibile far uscire i prodotti in serie brevi e differenziate con aggiustamenti continui alle fluttuazioni della domanda che “tira” la produzione, in questo modo il modello giapponese sta nel collegare la qualità alla essenzialità, che si connettono direttamente alla flessibilità produttiva.
-caduta della domanda di beni tasso attività/tasso occupazione subisce apertura a forbice, per le donne decresce dal 1960 al 70.
-crescita disoccupazione, stato che tende a peggiorare nel tempo: “studio dei rischi – cronicità” che rende il lavorato più obsoleto.
NELLA SOCIETA’ POST-FORDISTA: Tutta l’enfasi viene posta sulla “flessibilità” si parla di “capitalismo flessibile”, cambia il significato del lavoro, non si hanno più le carriere in cui un individuo doveva incanalare i propri sforzi in campo economico con una direzione che si poteva seguire per tutta la vita. I contratti diventano atipici, differenziali salariali e relativa selezione avversa. Il carattere strutturale della precarietà è che diventa nel post-fordysmo un dato acquisito, è difficile che un mercato possa funzionare bene senza che ci sia precarietà. Il capitalismo flessibile sposta i lavoratori dipendenti da un tipo di incarico a un altro, cancella i “percorsi lineari” tipici delle carriere. Oggi la flessibilità mette in evidenza il significato ella parola “job” che nell’Inghilterra del trecento indicava un “blocco”, un “pezzo”, qualcosa che poteva essere spostato da una parte all’altra, ora le persone sono chiamate a svolgere pezzi di lavoro. Sono evidenti le difficoltà a perseguire obiettivi a lungo termine in un’economia che ruota attorno al breve periodo; la sfida che il capitalismo flessibile ci pone è la difficoltà a decidere quali dei nostri tratti merita di essere conservato all’interno di una società impaziente e che si concentra solo sul momento. Vengono a mancare l metanarrazioni nella vita dell’individuo. Lo stato di disoccupazione comporta “effetti psico-relazionali”, perdita di contatto, mette in crisi il ruolo sociale (anni 70/80) dei procacciatori di reddito la famiglia deve necessariamente diventare dual- earner, ossia a due redditi. La disoccupazione diventa frizionale e strutturale, se prolungata crea erosione dei risparmi con caduta nella povertà. Inoltre incentiva l’abbassamento del cosiddetto “salario di riserva”, ovvero salario al di sotto del quale non si è disposti a lavorare: secondo Malthus il mercato risolve le sue crisi attraverso il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, là dove il salario dipende dalla produttività marginale.
POVERTA’ E DEMOCRAZIA: la povertà non favorisce la democrazia perché è causa di “esclusione sociale” se la diseguaglianza è grave e durevole la vita è danneggiata per così tanti aspetti che le persone non vengono riconosciute dagli altri come appartenenti alla comunità, si ha“squalificazione sociale” . La differenza di reddito al di là di una certa soglia diventa una causa di discriminazione, si ha l’esclusione dall’ in-group come esclusione di cittadinanza. Si parla di “culto del self”, cioè di come per acquisire uno “status” dobbiamo esibire la nostra appartenenza rispetto a delle idee o pregiudizi che si ritengono condivisi, le “regole grammaticali” , i riti del self nella società moderna sono diventati quotidiani: il “consumo” e le sue forme, le regole di chi è capace a procurarsi da vivere sul mercato, nascono spontaneamente dal regime produttivo in società che hanno raggiunto un elevato grado di benessere, focus su cui grava la vita materiale: “la vergogna” da parte di chi non ce la fa.
Concezioni della soglia di povertà:
-Nel 1901 si parlava di povertà ASSOLUTA
-Nel 1962/64 di povertà RELATIVA
Viene reintrodotto il concetto di povertà assoluta con la crisi dei mercati finanziare nel 2008/2009.
DILEMMA DEL WELFARE E APPROCCIO WORKFARE: Welfare come politica di reddito minimo garantito là dove la crisi genera disoccupazione che se non è sussidiata produce povertà, si veda la flxicurity. Workfare , l’esclusione si risolve con il lavoro, ovvero politiche del reddito condizionate dalla disponibilità a lavorare. Occorrono politiche di empowerment: il problema non dipende solo da rafforzamenti sull’individuo (formazione ecc.) ma anche da una appropriata trasformazione dei contesti in cui l’individuo opera. I problemi delle politiche pubbliche riguarda il favorire direttamente o individualmente la produzioni di beni collettivi locali per lo sviluppo e la competitività dei territori, le politiche di contrasto alla vulnerabilità comportano uno spostamento degli “obiettivi di giustizia”, il focus si sposta dal discorso dell’ “eguaglianza”, al discorso della “libertà”. Mi pare significativa la correlazione causale tra libertà e diritti, in un processo di espansione delle libertà umane e che si contrappone ad altre visioni più ristrette dello sviluppo come quelle che lo identificano con la crescita del prodotto nazionale lordo. Naturalmente la crescita del PNL o dei redditi può essere un importante mezzo per espandere le libertà, che però dipendono anche da altri fattori come gli assetti sociali ed economici come per esempio il sistema scolastico e quello sanitario, non di meno i diritti politici e civili. Fondamentale è il ruolo delle istituzioni della democrazia, nate per certi versi per favorire la formazione del mercato ma anche per regolare il mercato e dare dei limiti alle forme di mercificazione. Quindi stiamo affrontando un tema che ha prima di sé un grande respiro storico. Essendo il reddito una importante mezzo di capacitazione a dirigere la propria vita, esso tende, normalmente, ad accrescere la capacità di una persona di produrre guadagnare, dobbiamo aspettarci che la connessione vada anche dal miglioramento della capacitazione all’aumento dei guadagni e non soltanto nella direzione opposta. Il nesso causale in questa direzione può essere particolarmente importante per l’eliminazione della povertà di reddito. ’L’attualità gira intorno al fatto che essendo i mercati fortemente spinti verso l’internazionalizzazione, è preoccupazione di molti che questa globalizzazione svuoti delle istituzioni democratiche che sono state storicamente pensate e formulate soprattutto come istituzioni legate allo Stato Nazionale la cui efficacia quindi era un’efficacia di tipo nazionale. Oggi invece queste istituzioni che hanno a che fare con il mercato vengono scomposte , forse del tutto svuotate e cambiate.
Alcune di queste istituzioni quali sono le autorità indipendenti sono un esempio importante di nuove istituzioni alle quali si affida la regolazione dei mercati, perché il mercato non esiste in natura, un mercato è una istituzione alla quale partecipano soggetti diversi portatori di interessi diversi, questo intendo come mercato. Quindi un mercato senza regole non è un mercato. E’ necessario un mercato efficiente in cui le parti sono tutelate, dove sono ridotte al minimo le asimmetrie informative, dove i contratti sono trasparenti, dove non c’è qualcuno che imbroglia, a parer mio lo si potrebbe definire un sistema democratico. Sul piano logico-concettuale possiamo definire la democrazia come un sistema assimilabile al mercato per analogia qualitativamente diverso nella sua logica di funzionamento dal mercato, nonché l’economia di mercato come causa e precondizione per un corretto e sano sviluppo democratico. Sul piano politico o prescrittivo è altresì necessario riflettere su ciò che è bene o non è bene fare e decidere politicamente, perché un conto è ciò che si scambia nel circuito politico dove non ha corso, o non dovrebbe averlo, il concetto di merce. Esistono prodotti se vogliamo, dotati di una destinazione universale, accessibili alla totalità dei cittadini (si pensi all’cqua) e come tali privi di prezzo. Oggetto appunto di diritti, che sono la ratio dello scambio politico in regime democratico. Nello scambio politico il valore di ciò che il destinatario riceve dal produttore (beni e servizi) e ciò che gli fornisce (consenso e voti) non sono commensurabili, non esiste equivalente generale a cui possono essere ridotti, né principio di compensazione che configuri il saldo tra i due flussi. In tale contesto la democrazia appare sempre più un lusso inutile e voluttuario, la giustizia sociale,i diritti e le questioni dell’eguaglianza sono diventati di per sé un ostacolo non solo al mercati ma al rendimento economico ed allo sviluppo. Vengono cioè conteggiati come costi superflui.
E’ questa la chiave di un nuovo iperliberismo che pone ormai apertamente il mercato non solo come equivalente della forma democratica, ma come sostitutivo di essa, come forma politica tout- court che può in ampi campi della vita associata sostituirsi allo strumento statuale di regolazione per determinare in assoluta autonomia una logica di totalitarismo di mercato, l’allocazione di valori e risorse. E’ questo il punto su cui oggi è necessario riflettere se si vuole una connotazione dell’economia in chiave di progresso compatibile con l’etica.

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