Grazie, Bettino

di Vittorio Lussana

In questi giorni ricorre il X anniversario della scomparsa di Bettino Craxi, il leader del Partito socialista italiano scomparso il 19 gennaio del 2000 ad Hammamet, in Tunisia, nella più totale solitudine. La sua storia è quella di un esponente politico giunto alla guida del più antico movimento politico progressista del nostro Paese durante un drammatico Congresso del Psi svoltosi, nell’estate del 1976, presso l’Hotel Midas di Roma, in cui era stato deciso di defenestrare, pur con rispetto e urbanità, l’ormai vecchio e stanco De Martino. Attraverso una ‘stranissima’ alleanza tra l’ala ‘manciniana’ del Partito e la corrente di sinistra facente capo a Gianni De Michelis, il Psi evitò miracolosamente di ‘spaccarsi’ in due tronconi trovando un compromesso proprio sul nome di Benedetto Craxi, detto Bettino, a nuovo Segretario nazionale. Craxi era il ‘pupillo’ di Nenni e aveva ricoperto per molti anni la carica di Vicesegretario. Tuttavia, questo milanese di origine siciliana, sulle prime sembrò un esponente di seconda o, addirittura, terza fila. Nessuno comprendeva, in quel momento, che la sua carriera era stata lenta solamente perché apparteneva a una sparuta minoranza interna, quella dei socialisti liberali, che non aveva mai voluto abdicare a una propria ferrea coerenza ideale. Ma di lì a poco, sfoderando gli ‘artigli’ che aveva saputo tenere ben nascosti, Craxi fece letteralmente irruzione come un autentico ‘ciclone’ nelle acque ‘stagnanti’ della politica italiana. Alla fine del 1978, infatti, il Pci dovette constatare come l’esperimento della ‘solidarietà nazionale’ si fosse rivelato insoddisfacente. Berlinguer aveva allora deciso di passare alla strategia della ‘alternativa democratica’, cioè alla costituzione di un largo fronte politico progressista in grado di mandare la Dc all’opposizione. Tuttavia, nelle more di un simile progetto diveniva giuoco forza necessario fare i conti con il Psi e con il suo nuovo leader, un esponente che stava cominciando a dimostrare tutta la sua ragguardevole ‘statura’. Craxi non aveva alcuna intenzione di lasciarsi logorare nel ruolo di comprimario della grande forza elettorale comunista e riteneva che il Pci stesse teorizzando un ‘ripiegamento operaista’ che rischiava di preludere a gravissimi errori. Cosa che regolarmente avvenne durante il voto parlamentare del 12 dicembre 1978, allorquando il Pci decise di ‘affondare’ l’intera maggioranza parlamentare avversando l’adesione dell’Italia al sistema monetario europeo, nonostante Bruxelles avesse garantito alla nostra vecchia e malandata ‘liretta’ una ‘banda di oscillazione’ più ampia di quella delle altre monete in circolazione nella Comunità economica europea, non escludendo eventuali svalutazioni concordabili. Paventando una virata deflattiva e una assai poco comprensibile contrazione dell’export, Berlinguer ebbe paura che l’inserimento dell’Italia nel cosiddetto ‘serpentone monetario’ si sarebbe ripercosso sull’occupazione e sul potere di acquisto dei salari, senza tener conto del fatto che un regime di ‘cambi semifissi’ come quello ipotizzato a Bruxelles avrebbe invece incoraggiato nuovi investimenti finanziari proprio nelle nazioni caratterizzate dalla circolazione di monete deboli. Craxi, perciò, si ritrovò nella fortunata coincidenza di poter approfittare immediatamente di un gravissimo errore di politica economica di Berlinguer. E iniziò a ‘svincolarsi’ definitivamente dal Pci. Nel corso di una lunghissima crisi di Governo in cui Pertini aveva affidato a Ugo La Malfa l’incarico di riguadagnare il sostegno parlamentare comunista superando l’aut – aut di Berlinguer e Pajetta – “O al governo, o all’opposizione” – proprio tramite i ‘buoni uffici’ del Psi, Craxi rifiutò di entrare in un Governo di centrosinistra ‘aperto’ al consenso parlamentare di ‘Botteghe oscure’, rendendo ineludibile il ricorso alle urne. Il 3 giugno 1979 gli italiani si recarono, dunque, a votare, con i seguenti risultati: lieve flessione democristiana, impercettibile progresso del Psi e, soprattutto, sonora ‘batosta’ per il Pci, il quale perse, in una volta sola, 4 punti in percentuale (circa 1 milione e mezzo di voti in meno). Cosa era successo? Semplicemente, che i ceti medi italiani avevano all’improvviso cambiato ‘bandiera’ e avevano giudicato ormai concluso un ‘ciclo’ politico ben preciso, avendo compreso la ‘suicida’ involuzione ideologica impressa dai comunisti alla loro linea politica generale. In seguito a quella grave sconfitta del Pci, la prima dopo quasi due decenni di ‘impetuose avanzate’, la Dc si accinse ad ‘affilare i coltelli’ per saldare definitivamente i conti con la fase di solidarietà nazionale e con le accuse di aver fatto di tutto pur di non mutare nemmeno di una virgola gli equilibri politici del Paese. Dunque, durante il XIV Congresso dello ‘scudocrociato’, che elesse Flaminio Piccoli nuovo Segretario nazionale, Carlo Donat Cattin fece approvare un asciutto ‘preambolo’ che escludeva, per il presente e per il futuro, ogni genere di collaborazione politica con la formazione guidata da Berlinguer. Nel frattempo, Craxi decise di ‘mandare in soffitta’ l’alternativa democratica e iniziò a predisporre il progetto di un polo laico – socialista forte, in grado di trattare da pari a pari con la Dc, mentre il nuovo Governo, presieduto da Arnaldo Forlani, cercò di arginare l’altissimo tasso di inflazione riducendo drasticamente il volume di circolazione monetaria ed elevando sensibilmente il costo del denaro. Naturalmente, la recessione fu istantanea. E i comunisti colsero immediatamente l’occasione per rilanciare una campagna di scioperi e di malcontento che non li obbligava nemmeno a particolari sforzi di fantasia. Persino l’oculato Berlinguer arrivò a patrocinare un lungo sciopero dei dipendenti Fiat di Mirafiori della durata di 35 giorni, una protesta che si concluse in modo disastroso, senza alcuna assunzione di oneri da parte dell’azienda torinese e con una profonda spaccatura tra i lavoratori delle qualifiche più basse, molti dei quali finirono con l’accodarsi alla ‘marcia dei 40 mila’, organizzata dai ‘colletti bianchi’ di Luigi Arisio, che attraversò Torino chiedendo di rientrare in fabbrica. Tuttavia, anche Forlani durò poco, perché nel maggio del 1981 scivolò goffamente sullo scandalo ‘P2’, una lista di 935 ‘fratelli massoni’ scoperta a Castiglion Fibocchi, in provincia di Arezzo, che costrinse il Governo alle dimissioni allorquando venne provato, inoppugnabilmente, di averla tenuta nascosta per proteggere i nomi ‘scottanti’ che vi figuravano. Sembrava si fosse ormai giunti a una vera e propria crisi di regime: autosegregatisi i comunisti nella loro supponente ‘diversità’, moralmente annichilita la Dc come ‘partito – Stato’, ancora allo stadio dei ‘vagiti’ il polo laico – socialista, il sistema dei Partiti italiani barcollò paurosamente. Invece, con un ‘colpo d’ala’ dei suoi, il nostro ‘caro vecchietto’ del Quirinale, Sandro Pertini, riuscì a evitare il disastro affidando la formazione di un nuovo governo al laico Giovanni Spadolini il quale, attraverso l’innesto dei liberali sul vecchio tronco del centrosinistra ‘organico’, riuscì a ‘mimetizzare’ un accordo tra le diverse forze politiche nelle ‘pieghe’ di un impegnativo ‘patto sociale’ per il rientro dell’inflazione e il risanamento economico. (Laici.it)

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