Pippo Pollina Parola di un emigrato eccellente che torna in patria non solo per stare in famiglia, ma anche per fare il pienone ai suoi concerti
Vip siciliani d'esportazione | Palermo | La prima settimana di gennaio, tutti i Siciliani emigrati altrove, tornano nelle loro città d’adozione, dopo aver trascorso le feste in quelle di nascita. Tra loro, probabilmente, c’è pure lui. Anche se noi lo abbiamo incontrato alla fine dell’anno appena finito mentre, in occasione di un suo concerto, si trovava proprio a Palermo.
Pippo Pollina, cantautore emigrato in Svizzera, è uno di loro, uno dei tanti, ma con una vena creativa come pochi, che lo ha fatto presto apprezzare in Europa e, forse proprio per questo, tardivamente fatto conoscere in Italia. Ma “sentiamo dalla sua viva voce” come sono andate le cose.
Hai iniziato a studiare musica prima ancora di diventare uno studente di giurisprudenza e un collaboratore de “I Siciliani” di Fava. Tutte esperienze molto “forti” comunque: ce ne parli?
E' cominciato tutto quando suonavo con gli Agricantus. Correva l’anno 1979 e m’iscrissi agli Amici della Musica, incontrando Paolo Romano, il mio insegnante di chitarra classica. Studiai con lui per cinque anni prima di sostenere l’esame al Conservatorio di Palermo. Nel frattempo, con gli Agricantus facevo tanti concerti (siamo arrivati a totalizzarne oltre 80) di musica popolare, così come si chiamava allora la world music. Io e gli Agricantus eravamo molto giovani, forse i più giovani musicisti di quel genere in Sicilia.
E il resto?
Incontrai Pippo Fava a Sant’Agata Li Battiati con altri tre ragazzi. Volevamo scrivere di Palermo all’interno di un giornale che si occupava molto di Catania, dato che lì si trovava la redazione. Gli proponemmo così la creazione di un inserto, da chiamare i Siciliani Giovani (perché, anche in quel caso, eravamo i più piccoli). Lui accettò subito. Era entusiasta all’idea. Credeva molto nei giovani e sapeva che era necessario partire da loro per raggiungere quel tanto auspicato cambiamento.Inoltre, gli piaceva molto anche l’idea di poterci insegnare il mestiere di giornalista. Dopo il suo omicidio, collaborai per qualche altro mese con la rivista, ma le loro difficoltà finanziarie misero fine all’attività.
E così hai deciso d’iscriverti a Giurisprudenza?
Non proprio. In realtà, avrei voluto studiare tutt’altro, ma inizialmente pensavo di utilizzare la mia laurea per lavorare proprio come giornalista. Solo che non mi interessava realmente quello che facevo. Non ho mai neanche frequentato una lezione, a parte la prima. Studiavo una settimana prima dell’esame e poi mi andavo a sedere davanti al professore pensando: “O la va o la spacca”.
Cosa ti ha spinto, allora, a lasciare Palermo nel 1985?
Sono partito per conoscere cose nuove, fare nuove esperienze. Avevo in mente di rimanere fuori per sei mesi e, invece, sono rimasto fuori per sempre. O, almeno, fino a oggi. Ho deciso di fermarmi a Zurigo perché negli anni in cui ho fatto il busker in giro per il mondo ho conosciuto tanta gente e, tra questa, Linard Bardill. Mi sentì suonare e mi propose di collaborare alla registrazione del suo disco. Accettai di buon grado e fu così che conobbi anche quelli che in seguito sarebbero diventati il mio manager e il mio produttore.
Un motivo in più per non tornare, dunque…
No. Non volevo tornare in Italia indipendentemente da tutto questo. Sono partito da questo paese perché temevo già allora (e parliamo degli anni ’80) che sarebbe diventato proprio ciò che è oggi. Sapevo che non ci sarebbe mai stato spazio per uno come me, per il mio genere di musica. Se fossi rimasto, non avrei mai potuto fare questo mestiere e ne ero perfettamente cosciente.
Ma poi hai avuto successo anche in Italia: in che modo?
Dopo 12 anni di lontananza, sette album pubblicati e mezzo milione di copie vendute, mi resi conto che i giornalisti mi facevano sempre la stessa domanda: “Come mai in Italia nessuno la conosce?”. E non ti nascondo che la cosa cominciò davvero a darmi fastidio, a pesarmi. Cominciai così a mandare i miei dischi ai giornalisti italiani. Il caso volle, inoltre, che in quel periodo un editore tedesco pubblicò il libro di un critico musicale svizzero su di me. Leoluca Orlando, allora sindaco di Palermo, lo lesse e mi chiamò. Ci incontrammo a Bruxelles e decidemmo di organizzare una presentazione del libro a villa Niscemi. All’evento parteciparono i giornalisti mitteleuropei che erano ormai abituati a seguirmi, ma c’erano anche – finalmente – i giornalisti italiani.
Una buona ragione per tornare, allora?
Non lo so. Il percorso del mio “rientro” è viziato dal fatto che sono rimasto a vivere all’estero, ma non so ancora se e quando tornerò definitivamente in Italia, a Palermo.
Tutte le volte che sei lontano da qui, qual è la prima cosa che ti fa venire in mente la tua città?
Palermo è – banalmente – il mare, perché è davvero la prima cosa che vedo dall’aereo ogni volta che atterro a Punta Raisi.
Il tuo ultimo album, “Tra due isole”, a quale altra “isola” è dedicato, oltre che alla Sicilia?
Ma naturalmente alla Svizzera, la mia seconda patria. Perché la Svizzera è un’isola in mezzo all’Europa. Non fa parte dell’Ue, né di altre organizzazioni internazionali. Fino a poco tempo fa non faceva parte neanche dell’Onu.
Quali sono i tuoi progetti, dopo la promozione dell’album?
Nel 2010 ricorre il 30esimo anniversario della strage di Ustica, al quale ho dedicato un’opera che porterò in giro per l’Italia, commemorando quell’evento. E poi farò un tour tra festival e teatri accompagnato da un quartetto d’archi femminile. Insomma, come vedi, la Sicilia è sempre con me.
Barbara Giangravè