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Crisi nello Yemen: paura, terrorismo e altri problemi per Obama

di Carlo Di Stanislao

Londra e Washington hanno deciso, il 2 gennaio, la chiusura delle ambasciate nello Stato arabo. I britannici hanno motivato il provvedimento con «ragioni di sicurezza» legate alla minaccia terroristica mentre ai dipendenti yemeniti della rappresentanza americana è stato detto di non presentarsi al lavoro fino a nuovo ordine. “L'ambasciata Usa a Sana'a resta chiusa in risposta alla minaccia rappresentata da al-Qaeda nella Penisola arabica contro gli interessi americani nel Paese” si legge in una nota sul sito web della missione diplomatica. Secondo poi quanto riferito alla Cnn da John Brennan, consigliere diplomatico di Obama impegnato nell’antiterrorismo, al-Qaeda progetta un attentato a Sana'a. Ricordiamo che l’ambasciata Usa di Sana'a fu oggetto di un attentato con due autobomba che causò 16 vittime, nel settembre del 2008. Il 3 gennaio scorso allertata anche l’ambasciata spagnola che ieri, secondo El Mundo, è rimasta chiusa al pubblico. A giudizio degli esperti la minaccia è reale e le misure di sicurezza vanno rafforzate. Per questo Obama ha chiamato a rapporto alla Casa Bianca i responsabili di tutte le principali Agenzie di sicurezza. In quel vertice intende fare il punto sull'intero arco dei controlli. Lo Yemen, che sta facendo fronte a un'insurrezione di militanti fondamentalisti musulmani nel nord e a proteste separatiste nel sud, ha rafforzato la sicurezza lungo le coste per bloccare l'infiltrazione di militanti dalla Somalia. Le autorità hanno disposto controlli continui in due province costiere, dopo che i militanti islamici hanno annunciato nei giorni scorsi di essere pronti a mandare rinforzi in Yemen per sostenere al-Qaeda. Secondo l’intelligence Usa il 23enne nigeriano incriminato per aver cercato di far esplodere un volo diretto a Detroit, è stato addestrato in Yemen da al Qaeda, e ha dichiarato che esso era una rappresaglia per il coinvolgimento degli Usa nello Yemen e per il sostegno militare al governo. Si prepara per Obama, che appare già ingrigito dai moltepli crucci d'un difficile governo. Un 2010 da far tremare i polsi, sia sul piano interno che internazionale. L'enorme linea di credito che la nazione americana ha accordato alla “promessa Obama” si sta sostanzialmente prosciugando, anche perché Obama, pur se molto s'è prodigato, nei fatti non ha ancora risolto i vari problemi che si era proposto di superare: risi economica, attenzione ambientale, riduzione degli interventi militari. In verità il nulla di fatto a Copenaghen, le buone intenzioni, ancora solo sulla carta, di Guantanamo, la non “messa in sicurezza” dell’Iraq, l’aumento di truppe in Afganistan, le acuite tensioni con l’Iran, l’assenza di soluzioni per Gaza, sono tutti problemi aperti e non sono compensati dall’avvio della sanità pubblica che ancora si presenta lungo e farraginoso. Ma la madre di tutti i problemi resta la crisi economica con misure varate importanti ma, ancora, inefficaci. E se gli “stimoli” all'economia statunitense predisposti dalla Casa Bianca obamiana hanno avuto il sapore di una ennesima iniezione di velenoso statalismo (la morte civile della vera libertà economica a favore dei cittadini medi), se al massimo di essi hanno beneficiato alcuni grossi complessi industriali ma non gli small business e le famiglie dei taxpayer, certo la colpa non è da imputare a Obama, ma ad un sistema con libertà economica autoscontatasi del dovere della responsabilità, cioè la pirateria di certi tycoon che costituisce il contrario stesso dello spirito capitalistico autentico. Inoltre, dopo il tentativo di attentato aereo di Natale e l’evidente fallimento dell’intelligence, i Repubblicani soffiano sul fuoco, chiedendosi se l’amministrazione di Obama sia davvero in grado di salvaguardare l’America. L’allarme era stato lanciato, le informazioni erano state raccolte, ma nessuno è stato in grado di analizzarle, metterle una di fianco all’altra per costruire il mosaico. Il fallito attentato del volo della Delta Northwest Airlines era una strage annunciata, ma l’intelligence non l’ha capito e non ha impedito che Umar Farouk Abdulmutallab salisse su quell’aero. Il discorso che Barack Obama ha fatto da Honolulu non ha rassicurato gli animi. Anzi, il presidente è stato (come al solito) molto analitico sulle cause del mancata azione di prevenzione dell’attentato e ha parlato di un fallimento del sistema di intelligence. Parole dure, critiche, che però in molti americani hanno suscitato timore e paura sullo stato della sicurezza statunitense. In più, Obama è sembrato voler prendere le distanze da quegli apparati, dando anche la sensazione di non controllare a pieno la situazione. E per il Commander in Chief non è certo un fatto positivo. Uno dei più seguiti blogger sugli Stati Uniti, Toby Harnden, ha pubblicato un articolo dal titolo “Obama si merita un 4 nella protezione degli americani”, riferendosi al voto alto (8) che il presidente si era dato per il primo anno di mandato. Il giornalista spiega i motivi delle sue critiche, tra le quali anche quello di aver “minimizzato” segnali come la strage di Fort Hood il cui autore era in contatto con un Iman vicino ad ambienti del network del terrore. Così, all’inizio del nuovo anno, Obama si trova, dopo Iraq e Afghanistan, con altri due fronti di guerra da vincere: la sicurezza interna e lo Yemen, che ospita di fatto al-Qaeda e le sue basi, e con un governo che non sa risolvere il problema. Per questo i suoi capelli sono divenuti bianchi. Lo stress della crisi ha fatto invecchiare precocemente anche Barack Obama e non solo per quanto attiene ai capelli. Anche la sua capacità oratoria, una delle armi con cui ha conquistato l'America, s'è appannata, facendolo divenire progressivamente “gobbo-dipendente”. Obama non parla più in pubblico senza leggere sui “teleprompter” (in gergo “gobbo”): i due pannelli di cristallo trasparenti che lo incorniciano a destra e a sinistra del podio da cui interviene e su cui scorre il testo del discorso che ormai si limita a leggere senza andare “a braccio”, né improvvisare. “La dipendenza di Obama dal gobbo è inusuale – scrive Politico, uno dei più seguiti Blog degli USA – non solo per la sua famosa oratoria ma anche perché nessun altro presidente lo aveva usato così spesso in così tanti eventi, importanti e meno”. Tutti segnali allarmanti che indicano lo stato di tensione e le molte preoccupazioni dell’amministrazione Obama, certamente incolpevole per lo stato delle cose in politica interna ed internazionale, ma forse non proprio all’altezza delle aspettative e non troppo risoluta circa strategie economiche, ambientali e di tutela dei diritti. Dati i tempi, forse è troppo presto per parlare di Obama come della grande speranza delusa (come era presto anche per dargli il Nobel per la pace); ma bisogna onestamente ammettere che qualche indizio c’è. Oltre a quanto già detto, la sua politica si è arenata anche su altri problemi come, ad esempio, la Palestina, con una partenza alla grande, seguita dall’effettivo “congelamento” degli insediamenti israeliani e con il premier Netanyahu che ha approfittato delle incertezze Usa per autorizzare la costruzione di 900 nuovi appartamenti a Gerusalemme Est. Per non parlare, poi, del fatto che in molti (e fra questi noi), che si aspettavano rivolgesse una parola forte ai dirigenti cinesi, gli autocrati del Paese più popoloso del mondo e magari si spendesse un pochino a favore del Tibet o degli uiguri, alcuni dei quali fucilati proprio poco prima della sua visita a Pechino. Ma, anche qui, poco da segnalare: il solito, retorico incontro con gli studenti, una breve predica sul fatto che internet non dev’essere sottoposta a censura; nemmeno un sospiro sui dissidenti cacciati in galera perché non potessero protestare in favore di telecamera. Alla fine della campagna elettorale del 2008, qualcuno aveva usato uno speciale programma per analizzare la parole più usate nei suoi comizi. Due spiccavano su tutte: promise (promessa) e change (cambiamento). Di questo passo, finiremo col credere che in lui c’era più promessa che cambiamento. A meno che la colpa non sia nostra: troppa voglia di un’altra America, troppa fiducia, troppo entusiasmo (anche come aquilani, delusi dalla promessa, sinora mancata, di aiuti per la ricostruzione). Certo la realtà del governo è dura per tutti, figuriamoci per uno a cui Bush ha lasciato in eredità due guerre non vinte e la più grave crisi economica dell’ultimo secolo. Lo sappiamo, inoltre, simpatici o no, i presidenti sono dei politici, mica dei santi. Tuttavia da un presidente liberal, progressista, riformista e di colore, davvero ci aspettiamo, ancora, molto di più e molto più concreto coraggio.

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