Quel Nobel controverso

di Giovannella Polidoro

C’era grande attesa a Oslo per il discorso che Barack Obama avrebbe pronunciato davanti all’Accademia del Nobel in occasione della consegna del prestigioso, quanto controverso, premio Nobel per la Pace a lui assegnato, in ottobre, dal comitato di Oslo. Sì, perché la decisione del comitato di Oslo di insignire, a pochi mesi dall’insediamento alla Casa Bianca, il presidente degli Stati Uniti con un riconoscimento che in passato era stato attributo a personalità del calibro di: Martin Luther King, Nelson Mandela, Madre Teresa di Calcutta e il Dalai Lama, ai più non è piaciuta. Una decisione – è stato detto – probabilmente prematura, che premia Obama più per le intenzioni che per il lavoro svolto fino ad ora in favore della pace. Il comitato di Oslo, alle critiche, ha risposto giustificando in questi termini i motivi per cui la sua scelta, alla fine, è ricaduta su Obama: “Il presidente Usa è stato premiato per il suo impegno a liberare il pianeta dalle armi nucleari, per il suo sostegno alla diplomazia multilaterale e al ruolo dell'Onu nella risoluzione dei conflitti nonché per la ritrovata leadership degli Stati Uniti sul fronte della sfida climatica”. Barack Obama, accompagnato dalla moglie Michelle, diversamente da quel che ci si aspettava non ha eluso le critiche. Anzi, con chiarezza ha sottolineato alla platea di Oslo che sarebbe un peccato di superficialità “se non prendessi consapevolmente atto della controversia che la vostra generosa decisione ha innescato. In parte, ciò dipende dal fatto che sono all'inizio, non alla fine, delle mie fatiche sullo scenario internazionale. Rispetto ad alcuni dei giganti della Storia che hanno ricevuto questo premio – ha continuato Obama – i risultati da me ottenuti sono minimi. E poi ci sono naturalmente uomini e donne di tutto il mondo imprigionati e picchiati mentre perseguivano la giustizia, coloro che lavorano e tribolano nelle organizzazioni umanitarie per alleviare le pene di quanti soffrono; e milioni di altri esseri umani senza identità le cui azioni coraggiose e compassionevoli senza clamore ispirano anche i più incalliti e induriti dei cinici. Non posso ribattere a coloro che considerano questi uomini e queste donne – alcuni conosciuti, altri ignoti a tutti tranne che a coloro che essi aiutano – più meritevoli di me a ricevere questo premio”. Senza tanti giri di parole, Obama ha dunque riconosciuto la contraddizione di un premio conferito al ‘Comandante in capo’ di una nazione impegnata in ben due guerre: il conflitto in Iraq che sta per volgere a termine e la guerra ancora aperta sul fronte afghano dove, peraltro, gli Stati Uniti, come ha annunciato lo stesso presidente americano una settimana fa, si preparano ad inviare altri 30.000 soldati, altri: “Giovani americani, incaricati di combattere in una terra lontana. Alcuni di loro uccideranno. Altri saranno uccisi”. Con realismo, il presidente ha sottolineato – ed è questo certamente il passaggio più importante del suo discorso – che la promozione dei diritti civili non può essere soltanto una esortazione. Il concetto di “guerra giusta” che si è andato affermando nel corso della Storia, è un’idea che giustifica il ricorso al conflitto bellico solo quando rispecchia alcune condizioni fondamentali, stabilite dal diritto internazionale, poiché ad essa si dove ricorrere in ultima istanza o per difendersi, se la forza impiegata è proporzionale all'offesa, oppure ogniqualvolta si rende necessario proteggere i civili dalle violenze. Fino a oggi, assai di rado il concetto di “guerra giusta” è stato realmente osservato perché “la capacità degli esseri umani di escogitare nuovi modi per uccidersi tra loro si è rivelata inesauribile, come pure la nostra capacità di escludere da qualsiasi gesto di pietà coloro che sembravano diversi o pregavano un Dio diverso. E' difficile immaginare” ha spiegato inoltre Obama, riferendosi all'Europa, “una causa più giusta di quella che ambiva a sconfiggere il Terzo Reich. La sfida da perseguire muove nella direzione di riuscire a conciliare due aspetti alle volte inconciliabili: riconoscere che la guerra in alcuni casi è necessaria (perché fa parte dei fallimenti dell'uomo) per difendere la pace. Da qui, dunque, la necessità”, ha concluso il presidente, “di fare in modo che tutte le nazioni – perché l'America non può agire da sola e non può da sola garantire la pace – si impegnino per favorire l'evoluzione graduale delle istituzioni umane”. (Laici.it)

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