LA REALTA’ DEI CONFRONTI

A fine d’anno, farci i conti in tasca appare un’impresa necessaria per tentare di capire com’è mal presa l’economia spicciola italiana. In altri termini, quella di tutti i giorni, quella dell’uomo qualunque che, poi, è quella che in realtà conta. Per poter avere precisi parametri di riferimento, abbiamo preso in esame i prezzi di parecchi generi merceologici al dicembre del 2000( quando ancora si comperava in lire) e nel dicembre del corrente anno in piena area Euro. Per evitare paragoni di convenienza, ci siamo riferiti all’inflazione che, per il periodo considerato, è stata stimata del 9,8% ( percentuale relativa ai nove anni presi in esame). I valori medi riportati si riferiscono alla situazione nazionale; anche perché i prezzi degli stessi prodotti variano, anche di molto, tra regione e regione. Il pane comune è rincarato del 16,5%: Ma secondo i dati ufficiali, l’incremento non avrebbe dovuto superare il 9%. La carne bovina comune è rincarata ( dicembre 2000/dicembre 2009) del 27%. Mentre l’incremento previsto non avrebbe dovuto superare il 15%. Lo zucchero ha fatto un balzo dell’11,5%. Contro un rincaro che si sarebbe dovuto attestare al 4,5% massimo. Le verdure, anche se il periodo invernale ora ha un suo peso sui costi, hanno registrato un incremento del 31%. Contro un incremento programmato dell’8,9%. Del resto, per lo stesso periodo in esame, le retribuzioni e le pensioni non sono per nulla aumentate in funzione del reale costo della vita ( +4,3%). Poi, ha ben osservare, i prezzi al minuto dei prodotti che abbiamo citato, come palese esempio, sono risultati ancor più alti di quelli (medi) riportati. Ma se i conti non tornano, un motivo ci dovrà pur essere. Certo è che, con l’introduzione dell’Euro, la spesa si è fatta più “pesante”. Ce n’eravamo resi conto da subito. Inizialmente, però, avevamo pensato ad un livellamento fisiologico che, poi, non c’e mai stato. I prezzi sono saliti dalla produzione al dettaglio. Il rapporto, magari grossolano, è che ciò che nel dicembre 2000 costava lit.1000, ora costa un Euro. In sostanza, il doppio del vecchio conio ( incremento reale del 100%). Del resto, le retribuzioni raffrontate ci danno un’altra ragione. Uno stipendio di lit.2.000.000 mensili ( al netto d’imposta), nel 2000 consentiva una vita relativamente tranquilla per una famigliola di tre componenti (con alloggio di proprietà). Oggi, con mille Euro il mese si campa poco. Secondo noi, ci si è troppo fidati del rapporto di conversione Lira/Euro, senza un controllo capillare sul potere d’acquisto interno. Tutto bene, quindi, solo a livello UE. Ma non basta più. L’Italia dovrebbe ritrovare un equilibrio tra spese e retribuzioni. Per la verità, un meccanismo ci sarebbe. Ovviamente contrastato dai produttori e dall’industria in genere. Basterebbe legare il prezzo dei generi di largo consumo, principalmente alimentari, alla percentuale d’inflazione programmata stimata per l’anno successivo a quello in corso. Dopo un riallineamento dei prezzi in Euro a quelli di mercato reale. O, ancor meglio, riuscire a calmierare i prezzi dei generi non di lusso su base annua. Come già succedeva, con migliore fortuna, ai tempi della liretta che cominciamo a rimpiangere. Nella Grande Europa, si dovrebbe rivedere il meccanismo dei costi che, invece, si differenziano ancor molto tra Paese e Paese. Così, invece, sono sempre gli stessi a tirare la cinghia ed il fatto che l’Euro abbia un valore superiore a quello della Divisa statunitense non ci consola più di tanto. In economia, con la moneta debole si favoriscono le esportazioni, con quella forte si privilegiano le importazioni. Com’è capitato anche da noi. Forse, ma conviene non dimenticarlo mai, la crisi economica europea, quindi italiana compresa, si è proprio verificata per una sovrapproduzione che non si è riusciti a “piazzare” proprio per i motivi per i quali abbiamo scritto. La lezione dovrebbe servirci.

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