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3 ossa da seppellire di Sahar Saba


Il testo che segue è un messaggio di Sahar Saba, afghana, donna rivoluzionaria di Rawa, tradotto e reso disponibile grazie a Laura Quagliolo e Cristina Cattafesta del Cisda. “Si diventa automaticamente fomentatori di violenza pensando che la solidarietà più urgente e quindi più immediata da dare sia quella verso le persone che stanotte o domattina rischiano di morire affogate nell’ Adriatico, avvelenate in Iraq o dilaniate in Afghanistan?” Con motivi molto simili a quelli scritti con lucida ironia da Ulisse Acquaviva , passo quindi a rispondere a certe domande se mai ce le vogliamo porre e alle risposte che donne e uomini lontani e vicini, danno quotidianamente, con la nonviolenza che fa obiezione costante e non a corrente alternata, come Sahar Saba. E il pensiero ritorna alla paura e all’arte della felicità, di combatterla questa malattia ,e di vivere che chissà se ce l’hanno la voglia i bambini di Napoli o di Gaza, in tempi di odio e di amore, sbandierato e mostrato, con la stessa facilità.

Doriana Goracci

Cos’è Rawa? E’ UN COLTELLO NEL CUORE DEL FONDAMENTALISMO “La “R” di RAWA sta per “rivoluzionaria”. Sarebbe più facile ottenere finanziamenti con una sigla meno “estrema”, e più volte le organizzazioni che le sostengono hanno insistito perché la cambiassero. Ma le donne di RAWA si sono sempre rifiutate: “in quanto organizzazione di donne che combatte contro i fondamentalismi in una società medievale dominata dagli uomini, noi stiamo facendo un lavoro autenticamente rivoluzionario” , risponde Maryam Rawi . E se, come ripetono, “l’arma della rivoluzione è l’educazione”, le parole contano più dei soldi.Chi è Sahar Saba? Le donne di RAWA sono unite da un patto di militanza che non viene reciso neanche quando abbandonano l’organizzazione: rimarranno comunque legate a essa dal vincolo del segreto. Ognuna di loro ha responsabilità precise e definite, ma ognuna ruota su più compiti. Abbiamo visto donne autorevoli fare i lavori più umili, e donne con l’aria dimessa dirimere con autorità le situazioni più complesse e controverse. Non credono nella gerarchia, non c’è una leader, e gli incarichi vengono distribuiti tra le aderenti, così che tutte condividono la responsabilità politica, organizzativa e di gestione, e il lavoro di base. Ci chiediamo come facciano a reggere ritmi di lavoro massacranti, e come possano mantenere alto il morale in una situazione così disperatamente ristagnante. “Ci sono molte ragioni per essere forti. Le circostanze ti rendono forte -risponde Sahar Saba – quando la gente ti vede come una speranza, e le donne ti vedono come una speranza, se perdi tu la speranza, cosa faranno loro?”

Meryl Streep and Sahar Saba, member of Revolutionary Assoc. of the Women of Afghanistan, 19 dicembre 2001

Da Sahar Saba
Per il mondo intero, le vittime della guerra in Afghanistan sono persone senza faccia né nome. Ma non per noi afghani. Io stessa ho pianto parecchie di queste vittime, compreso mio zio. Tre settimane fa un altro attentatore suicida si è fatto espodere; l’attacco ha causato solo la morte dell’attentatore e del suo complice. A quanto sembra, l’attentatore voleva tendere un agguato alle truppe NATO nel nord dell’Afghanistan. Il suo complice lo aveva condotto a bordo di una motocicletta sul luogo dell’attentato. Nel loro viaggio si sono imbattuti in un check-point della polizia che voleva perquisirli. Invece di fermarsi hanno cercato di scappare e la polizia ha reagito sparandogli. Chi guidava la motocicletta ha perso l’equilibrio e sono caduti entrambi, causando lo scoppio dell’esplosivo nascosto nella giacca. Sono entrambi morti sul colpo. Uno dei due era Abdul Rauf, mio cugino, dell’età di 22 anni Quando l’incidente è stato riportato dalle televisioni nessuno della mia famiglia ha fatto caso al nome Abdul Rauf, benché sapessimo che aveva simpatie per i taleban ed era in favore degli attentati suicidi. Rauf è un nome molto comune in Afghanistan e nessuno di noi ha pensato che si trattasse del Rauf che conoscevamo. Abbiamo saputo della sua morte solo quando i suoi genitori si sono insospettiti per la sua assenza, che durava da una settimana. Inizialmente nessuno
si era preoccupato per questo, perché spesso si assentava per lavoro per alcuni giorni. Ma una assenza di una settimana era inusuale. Quando suo padre ha contattato le autorità per avere notizie è stato arrestato e tenuto in prigione per una notte. “I poliziotti ce l’avevano con me, perché non avevo riferito che mio figlio aveva in animo di farsi esplodere”, è ciò che più tardi mio zio ha riferito ai familiari, rilasciato grazie all’intervento di membri della sua tribù. Anche se i genitori sapevano della simpatie di Rauf per i talebani non pensavano di doverlo denunciare alle autorità. Anche perché tutti sanno come vengono torturati i prigionieri afghani che finiscono nelle carceri gestite dagli americani. Tutta la famiglia, e soprattutto sua madre, lo pregava di non mischiarsi con i taleban. Lui non reagiva mai e per tutta risposta diceva: “Sto cercando il paradiso”. Il suo desiderio di cercare il paradiso gli è stato inculcato nei 12 anni che passati in una Madrassa del Pakistan, dove le nostre rispettive famiglie si erano rifugiate durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan. I campi profughi del Pakistan erano gestiti, in pratica, da mujaheddin, anche se formalmente erano in mano all’UNHCR. In questi campi l’istruzione delle ragazze, la musica, la televisione o
qualsiasi altro mezzo troppo “liberale” erano banditi. Le donne dovevano indossare il burqa. Mio padre voleva che io andassi a scuola. Rawa, un’organizzazione di donne afghane, gestiva clandestinamente scuole per ragazze e anche per ragazzi. Fu così che la mia famiglia entrò in contatto con Rawa. Oltre a me, anche i miei fratelli si iscrissero a queste scuole perché anche i ragazzi non avevano altra scelta se non finire in una madrassa. Per un lungo periodo di tempo i sostenitori di Rawa furono in grado di organizzare un intero campo profughi, nel quale i fondamentalisti non avevano alcuna influenza. La vita di quel campo era molto diversa da quella nei campi gestiti dai fondamentalisti. Rauf non è nato nel campo profughi di Rawa ma in un campo controllato da jehadi e ha frequentato una madrassa nella quale i bambini delle scuole primarie venivano indottrinati sulla jihad; i disegni sui libri rappresentavano armi, proiettili, soldati e mine. Questi libri di testo erano, ironicamente, stati stampati negli anni ’80 grazie a un finanziamento di USAID (Agenzia internazionale allo sviluppo degli USA) a favore dell’Università del Nebraska e del suo Centro studi sull’Afghanistan. Ho avuto questa notizia da un amico durante una visita negli USA, subito dopo l’attacco dell’11 settembre, che mi ha mostrato un’inchiesta del “Washington Post” che rivelava che tra il 1984 e il 1994 USAID aveva sperso 51 milioni di dollari per “programmi scolastici” in Afghanistan. Rauf era uno dei bambini che si sono alfabetizzati su quei libri di testo. La sua morte mi ha procurato una strana sensazione, perché io sono stata una portavoce di Rawa e durante il regime dei taleban ero (e forse sono ancora) nella loro lista nera. Ho sentito che anche Rauf è stato una vittima del terrorismo intellettuale finanziato dagli USA e diffuso attraverso i libri di testo pubblicati dall’Università del Nebraska. O, forse, sono soltanto triste per la morte di un giovane. Ho pensato molto alla madre di Rauf, che ha ricevuto solo tre ossa da seppellire nel cimitero del nostro villaggio. Dalla sua morte ho pensato che se Rauf (e i giovani come lui) avessero avuto la possibilità di frequentare una buona scuola non sarebbe mai diventato un attentatore suicida. Chi mi legge si chiederà la ragione per cui non ha frequentato le scuole di Rawa, e la ragione sta nella paura dei fondamentalisti e nelle minacce che suo padre aveva ricevuto.
I fondamentalisti gli avevano detto che se avesse cercato di educare i suoi figli nelle scuole di Rawa avrebbe dovuto pagarne le conseguenze, oppure andarsene dal campo. Le parole del fratello maggiore di Rauf,
che aiuta suo padre nel loro negozio, mi risuonano continuamente nelle orecchie. Dopo aver saputo della morte del fratello ha detto: “Meno male che si è solo suicidato. Pensa se avesse ucciso decine di civili. Pensa alla tragedia che avrebbe causato”. Ho pensato, sentando queste parole, quanto sia stata brutalizzata la
società afghana, se non sappiamo nemmeno se dobbiamo piangere o festeggiare la morte dei nostri cari.


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