Il gioco delle parti

Berlusconi-Fini: una partita che non prevede il pareggio

L’Italia ha troppi gap per permettersi anche solo di giocare con l’idea del voto anticipato

Parliamoci chiaro: lo scontro Berlusconi-Fini, o meglio la sua rappresentazione mediatica, non è conseguenza né del presunto tradimento del presidente della Camera né dell’irascibilità del presidente del Consiglio, bensì di una scelta più che razionale di quest’ultimo. Il Cavaliere vuole le elezioni anticipate – nella convinzione, giusta o sbagliata che sia, sia di poterle ottenere (superando ostacoli politici, parlamentari e istituzionali che forse sottovaluta) sia di poterle vincere qualora davvero ci fossero – e si comporta di conseguenza. Nella fattispecie ha bisogno di trovare una scusa e un colpevole, e il manifestarsi dell’autonomia di Fini – politica e istituzionale, la prima derivante dalla maturata convinzione che il Pdl non è trasmettibile per via ereditaria e che dunque ci sarà un “dopo Berlusconi” ma non un “successore”, la seconda derivante dalla sua carica – gli si è palesata come l’occasione più opportuna.

E così il premier sta facendo di tutto per creare la spaccatura (caso lodo Alfano), per renderla insanabile (caso fuori-onda), e infine per trarne la “fatale conseguenza” (ha tempo fino al 18 gennaio, se vuole unificare le politiche anticipate con le regionali). La smentita di ieri, l’ennesima, è la miglior conferma. Fini, che ha capito benissimo il gioco del suo “alleato” e non ha alcun interesse ad assecondarlo, ha cercato e trovato una sponda in Bossi – che non vuole le elezioni, a meno che il Cavaliere non paghi cedendo tutte le regioni del Nord, dunque anche Lombardia oltre che Piemonte e Veneto – ma ha il difficile compito di non offrirgli il destro e nello stesso tempo non tornare sui suoi passi, due cose che col passare del tempo si fanno sempre meno compatibili.

Naturalmente, per come si sono fin qui svolte le cose, è difficile immaginare uno sbocco pacifico della contesa: questa è una partita che non prevede il pareggio. Anche perché s’inquadra in uno scenario economico niente affatto tranquillizzante. E può essere proprio la variabile economia, che tutti sottovalutano, a determinare l’esito della partita politica, che potrebbe in un modo o nell’altro interrompere la legislatura. I fronti di sofferenza della nostra economia sono tanti, ma mentre finora tutti si sono soffermati sul pericolo che la recessione uscita dalla porta per il volgere al termine della grande crisi finanziaria mondiale, possa rientrare dalla finestra per il combinato disposto della chiusura di aziende (si ipotizza che possano essere tra 250 mila e 1 milione) e la conseguente disoccupazione, che può determinare una pesante caduta dei consumi interni, io voglio invece segnalare la questione export.

Perché se ripresa ci può essere, essa non potrebbe che derivare dal riavvio della domanda mondiale, e quindi dalla capacità del nostro sistema produttivo di competere in quella che con definizione antica potremmo chiamare la “nuova divisione internazionale del lavoro”. E qui, purtroppo, casca l’asino. Già la stragrande maggioranza delle imprese italiane era poco globale e scarsamente competitiva prima della crisi, figuriamoci ora che la dinamica della concorrenza ha reso tutto più complicato. Prendiamo i dati Isae (quindi governativi) relativi al commercio mondiale di due giorni fa: le esportazioni italiane chiuderanno il 2009 con una flessione del 21%, mentre nel 2010 dovremmo assistere ad una debole crescita (+1,5%). Ma quel che più conta, l’Italia marca un gap pericoloso sia con il resto del mondo (l’export globale calerà quest’anno del 13,7% per crescere del 7,6% il prossimo), sia con Eurolandia (-15,6% e +5,3%).

E se la flessione dell’interscambio mondiale è la più ampia dalla fine della seconda guerra mondiale, la nostra che è maggiore di ben 7,3 punti (il 53% in più), appare disastrosa.

E ancor peggiore è il distacco previsto per il 2010: quei 6,1 punti percentuali significano uno scarto dell’80% tra noi e gli altri competitor. Distanze che si abbassano solo un poco se ci confrontiamo con l’area dell’euro: 5,4 punti (34% di differenza) nel 2009 e 3,8 (71%) nel 2010. E non dissimile è il gap relativo alle importazioni: per l’Italia, contrazione del 16% quest’anno e crescita del 2% il prossimo, a fronte del -13,2% e +7,3% dell’import globale e del -12% e +4,6% di quello dei paesi euro. Questo significa perdere quote di mercato nell’interscambio mondiale, e dunque per questa via arrivare alla chiusura di imprese e a nuova disoccupazione. Ed è evidente, senza bisogno di scadere nel qualunquismo, che in un momento come questo a imprenditori e lavoratori tutto interessa meno che le elezioni anticipate. (Terza Repubblica)

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