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Perché gli operai votano a destra?

La destra sociale da Salò a Tremonti. Intervista a Guido Caldiron
Perché gli operai votano a destra? Quali sono le ragioni del successo della “destra plurale” italiana negli insediamenti sociali tradizionali della sinistra? Intervista a Guido Caldiron, autore di “La destra sociale. Da Salò a Tremonti” (Manifestolibri).

di Emilio Carnevali

Lo scorso 14 maggio Il Sole 24 Ore pubblicava un articolo intitolato: “Da Marx a Bossi. I nuovi operai”. L’ironico incipit di quel testo si soffermava sull’homepage del sito toscano della Lega Nord: il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo con il lavoratori ritoccati in camicia verde e la scritta “la classe operaia va col Carroccio…”.
Negli ultimi anni articoli come questo si sono susseguiti sempre più numerosi sulla stampa italiana, registrando il fenomeno della trasmigrazione a destra di cospicui settori sociali che fin dagli albori delle democrazie moderne avevano costituito la base elettorale dei partiti di sinistra, legati al movimento operaio e socialista.
Cosa c’è dietro questo epocale mutamento della geografia politica e delle culture sociali del nostro Paese? In realtà – come testimoniano anche le recenti elezioni europee, che hanno visto la considerevole affermazione di forze politiche di ispirazione populista e xenofoba un po’ in tutto il Continente – il fenomeno non interessa solo l’Italia. Tuttavia nel nostro Paese la dinamica sintesi fra varie e talvolta assai diverse “anime” della destra dà vita ad un “laboratorio politico”, la cui indagine può certamente essere utile per una comprensione più generale del pericolo neoautoritario a livello globale.
Nel suo La destra sociale. Da Salò a Tremonti (appena pubblicato da Manifestolibri) Guido Caldiron affronta proprio questa analisi, andando a rintracciare le radici culturali della moderna destra nelle esperienze storiche del novecento per poi individuare i tratti di continuità/discontinuità con i movimenti contemporanei e le loro traiettorie di sviluppo. Una analisi tanto più utile quanto più il disagio sociale legato alla crisi economica nella quale siamo immersi non sembra affatto avvantaggiare le opposizioni di sinistra (e le risposte tradizionalmente riconducibili alla categoria della “classe”), quanto piuttosto il territorialismo difensivo bandito dall’asse Tremonti-Lega.
Giornalista di Liberazione, Caldiron ha pubblicato in passato diversi ed interessanti saggi sulle nuove destre, come Gli squadristi del 2000 e Lessico postfascista (entrambi editi da Manifestolibri).

Caldiron, quali sono secondo lei le principali cause di questo sfondamento della destra in larghi settori popolari del nostro Paese?
I motivi del successo delle destre tra i lavoratori italiani credo vadano ricercati nell’incrociarsi di diversi fenomeni, di natura politica come anche sociale e economica. Mi spiego. Da un lato le destre hanno saputo sfruttare paure e ansie emerse nei settori sociali un tempo tradizionalmente vicini ai partiti della sinistra, hanno saputo indirizzare il timore della globalizzazione prima e della crisi poi verso i temi della “sicurezza” e dell’immigrazione, facendo sì che per molti lavoratori che vedono messo in discussione il proprio posto ci sia un “colpevole” da indicare facilmente: lo straniero, colui che ha comportamenti ritenuti socialmente devianti e via dicendo. Non c’è però solo questa costruzione del capro espiatorio nel repertorio delle destre italiane. In alcune aree del paese, e penso in questo caso soprattutto al settentrione, la destra, soprattutto quei suoi segmenti più innovativi in termini di culture politiche, perché meno legati alla storia del Novecento, hanno saputo tradurre in rappresentanza politica le grandi ristrutturazioni produttive degli ultimi vent’anni: al capitalismo che mutava diventando sempre più diffuso sul territorio la destra ha saputo proporre una sorta di politicizzazione del territorio stesso, con tanto di invenzioni identitarie ad hoc.

La destra italiana è però tutt’altro che un corpo omogeneo di culture ed interessi. Pensiamo alla considerevole distanza tra il neoterritorialismo della piccola borghesia leghista e al neostatalismo corporativo delle burocrazie meridionali postfasciste. Come è stato possibile attuare una sintesi così stabile ed “efficace”?
Le destre, che in Italia hanno saputo trarre profitto da una stagione del tutto particolare quale è quella che è sorta con la caduta del vecchio sistema di potere inghiottito in gran parte da Tangentopoli, si sono andate definendo attraverso un profilo “plurale”. Culture tra loro anche molto diverse hanno saputo trovare una sintesi secondo due traiettorie: una politica e una culturale. Sul piano politico, è grazie all’emergere di una figura nuova, come è quella incarnata dal modello populista di Berlusconi – protagonista di un capitalismo che crea sogni e stili di vita quale è quello della televisione e dello spettacolo – che il vecchio mondo neofascista del Msi e la nuova destra del territorio della Lega si sono potuti incontrare. Quanto alla cultura, si è proceduto dapprima attraverso la ricerca di temi forti, dal ritorno di attenzione per l’“identità” e la “comunità”, variamente declinati, parole guida da contrapporre all’immigrazione “invasione”, usata per capitalizzare paure nuove cresciute nella società: l’esito è stato la trasformazione in termini di “sicurezza” di ogni dibattito sulla vita nelle città e più in generale sulla vita sociale. Via via sono cresciuti però anche elementi di sintesi tra i vari settori delle destre che all’inizio rappresentavano soltanto una coalizione elettorale. Il fatto che oggi si possa parlare dell’esistenza di un asse politico e culturale tra un ministro (ex) ultraliberista come Giulio Tremonti, già vicino ai socialisti, e il sindaco di Roma Gianni Alemanno, per anni punto di riferimento dei settori giovanili radicali del Msi, indica come si sia andati oltre la semplice giustapposizione di temi e simboli. Ciò detto, la crisi tra Fini e Berlusconi, che affonda anche nella ricerca del presidente della Camera di immaginare una destra che possa sopravvivere al pensionamento del Cavaliere, fa intravedere tutta la fragilità di una costruzione politica che, non va dimenticato, si è imposta in Italia a partire da una condizione di crisi delle istituzioni e di ristrutturazione economica di grande portata.

Quali sono – se ci sono – le responsabilità della sinistra (moderata e radicale) in questa avanzata della destra all’interno di territori sociali tradizionalmente presidiati da culture inclusive e solidaristiche?
Le responsabilità delle sinistre sono di diversi tipi. Su quella moderata pesa il fatto di aver cercato un’improbabile legittimazione tra ex o post, chi veniva dal Pci con chi veniva dall’Msi, – condita di aperture di credito a un revisionismo storico che nella vulgata popolare, più frutto di Porta a porta che di un vero dibattito storico, ha finito per descrivere le vittime alla stregua dei carnefici – non capendo che sarebbe dovuto essere sul terreno degli atti concreti che si misurava o meno l’approdo democratico di una forza politica: l’Msi entrò nel I governo Berlusconi del 1994 prima di dar vita alla nascita di An, tanto per citare un dato. In modo più rilevante su tutte le sinistre pesa però l’incapacità di aver saputo leggere sia le trasformazioni del lavoro che quelle della società. Sul terreno del lavoro si sono consegnati tutti i nuovi soggetti emersi dalla ristrutturazione produttiva degli anni Ottanta alle destre: non si è visto come fuori dalla condizione di lavoratore dipendente non vi fossero solo “padroncini” ma anche tanti nuovi proletari, magari legati, anche se non solo, a produzioni immateriali, di senso o all’industria della comunicazione in senso lato. Stessa cosa si può dire di fronte all’irrompere dell’immigrazione nella società italiana: invece di interrogarsi sulla natura della propria cultura, cercando di darsi un profilo cosmopolita e di apertura al nuovo, le sinistre hanno o scimmiottato la destra sull’allarme “sicurezza” o visto i nuovi arrivati come membri di una “classe operaia di riserva” da organizzare secondo la tradizione del movimento operaio. In entrambi i casi buona parte della vita sociale cresciuta anche attraverso la presenza dei migranti, non solo nelle grandi città, è rimasta lontana e estranea a questi schemi.

I recenti episodi come le aggressioni verificatesi a Roma a danno di circoli e locali omosessuali possono configurare a suo parere il pericolo di un ritorno di forme di violenza diffusa su scala anche maggiore?
Ci sono due fenomeni che vanno considerati da questo punto di vista. Il primo è che con la nascita, nell’arco degli ultimi quindici anni, della “destra plurale” italiana anche la tradizionale collocazione del neofascismo giovanile, all’origine di una lunga scia di violenza nella storia repubblicana, è mutata: a livello locale i contatti tra esponenti dei partiti di governo e dei gruppi dell’estrema destra sono diventati abituali, quando non si è assistito all’ingresso di militanti di questi ultimi ad esempio nel Pdl – nella capitale gli animatori di un’occupazione di estrema destra sono confluiti in An alla vigilia della nascita del partito unico della destra, mentre presso un’altra di queste occupazioni, Casa Pound, si sono svolti dibattiti e incontri con protagonisti della politica governativa e del Pdl stesso. In contraddizione con questo processo, si deve però sottolineare come l’enfasi posta di continuo sulla presenza degli immigrati e sulla difesa di comportamenti giudicati socialmente accettabili, ha reso il dibattito pubblico estremamente aggressivo e violento. In un simile clima è chiaro come i settori della destra radicale rimasti estranei alla strategia dell’attenzione della destra governativa e quegli ambienti a metà strada tra la marginalità urbana e le sottoculture giovanili razziste, cresciute a dismisura nell’ultimo decennio, siano all’origine di un vero e proprio stillicidio di violenze, aggressioni e minacce. In questo si può già parlare di violenza diffusa.

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