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Gli utilizzatori finali

di Tommaso Crudeli

L’infelice espressione che ha reso famoso l’avvocato Ghedini più di ogni suo risultato processuale si presta particolarmente a comprendere la portata della diversità delle posizioni in campo in materia di riforma della giustizia. Chi ha una cultura collettivista, per cui lo Stato è più dell’individuo, ritiene che l’individualità e la libertà siano un prodotto della collettività e che l’individuo possieda oggettività, verità ed eticità solo in quanto componente dello Stato. Ne consegue che ogni diritto dello Stato prevale sul diritto del cittadino, che solo grazie alla concessione dello Stato è libero di svolgere liberamente la propria vita. I collettivisti vedono quindi nella prescrizione dei reati e nel termine massimo della durata dei processi solo una colpevole debolezza nei confronti dei cittadini, presunti colpevoli. Chi ha una cultura individualista, invece, ritiene che l’unica fonte della morale sia l’individuo, con la sua libertà e la sua forza creatrice. E che la legge fondamentale della società sia di non fargli violenza. Ritiene che i diritti individuali non esprimano una concezione egotista, ma costituiscano i presupposti della cooperazione sociale. Gli individualisti sanno che lo Stato nasce da un contratto sociale per il quale loro conferiscono una quota della loro libertà e ricevono in cambio protezione, giustizia e diritti. La libertà di intrusione dello Stato nella vita dei privati è quindi derivata dalla delega contenuta nel contratto sociale. La prescrizione e il termine massimo della durata dei processi, per gli individualisti sono quindi i limiti che lo Stato riceve dai cittadini, presunti innocenti. Entro un certo limite si può andare, oltre no. E non solo perché non è giusto, ma soprattutto perché non se ne ha il diritto. Questi sono i termini culturali della questione. Lo diciamo anche agli inconsapevoli, quali l’onorevole Di Pietro e ai consapevoli, ma impenetrabili, quali Marco Travaglio. Questa impostazione richiede, tuttavia, che si affronti anche un aspetto che finora non è assurto agli onori della cronaca parlamentare: il costo del processo penale. Nel processo civile chi perde ha l’onere delle spese, anche quelle relative all’onorario dell’avvocato della controparte. Ciò non avviene nel processo penale. Forse è giunto il momento per cui un cittadino, trascinato in tribunale con una accusa che poi si rivela infondata, una volta dichiarato innocente venga almeno rilevato indenne del costo sopportato per la difesa. Chi perde paga, anche nel processo penale: questo dovrebbe essere il principio. E il costo della soccombenza a carico dello Stato sarebbe, inoltre, un sufficiente indice segnaletico dell’efficacia dell’azione del magistrato inquirente che ha intrapreso l’azione penale e della quale si potrebbe – e dovrebbe – tener conto ai fini della progressione della carriera. Rimane ancora un punto importante da trattare: la responsabilità dei magistrati. In democrazia ogni potere deve essere responsabile: l’esecutivo lo è verso il legislativo e, quest’ultimo, lo è verso gli elettori. Il giudiziario è, invece, un potere irresponsabile. Un potere irresponsabile è un potere assoluto e questo non è tollerabile in una democrazia liberale. Oggi, il magistrato è l’unico cittadino che dei propri errori e dei propri eccessi non è mai responsabile, mentre i cittadini sono assoggettati al controllo incontrollabile dei magistrati, dunque chiamati a subire le conseguenze dei loro errori. Per rimediare, basterebbe una legge di un solo articolo che abroghi quell’imbroglio nato per negare il risultato del referendum sulla responsabilità dei magistrati. Se veramente ciò che si svolge in questi giorni non è il solito teatrino della politica ma, pur se tardiva, la concreta ipotesi di riformare il settore della giustizia a vantaggio degli “utilizzatori finali” e non dei suoi corporativi operatori, da questi argomenti ci pare non si possa prescindere.(Laci.it)

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