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Macchine gioiose e macchine dolorose

Riflessioni sulla fuoriuscita dall'agone politico annunciata
dal sindaco-filosofo di Venezia, Massimo Cacciari.

di Andrea Ermano

Lui vuol uscire dal ring della politica attiva e appendere al chiodo i guantoni, perché il PD di Bersani lo ha deluso. Bersani porterà a un'intesa “inevitabile” con la “Cosa bianca” di Casini e Rutelli, porterà a una “frittata” da prima Repubblica: “È il vecchio disegno di D'Alema”, dice Massimo Cacciari, “non m'interessa culturalmente. Anche se è l'unica via per sconfiggere Berlusconi”.
Lui non vuol morire democristiano né, però, rimanere ulteriormente in un partito come il PD in odor di “socialdemocrazia” e si dichiara ansioso di tornare all'Università: notizia non brutta, essendo Cacciari uno tra i maggiori pensatori italiani contemporanei. “A 65 anni ho capito che non sono capace di fare politica”. Butta lì. E poi conclude tagliente: “Il mio amico D'Alema sì che è capace”. Traduzione: D'Alema svolge il proprio lavoro in modo efficace, ma banale. Le sue basi culturali socialdemocratiche nascono “vecchie”.
Sarà. Ma mentre il vice-presidente dell'Internazionale è candidato dal PSE alla carica di ministro degli esteri europeo, Cacciari stesso lamenta invece di sé, malinconicamente: “Nessuno mi ha mai filato, anche se ho avuto sempre ragione”. Fosse così, lui farebbe bene a restare dentro il PD attendendo che si avveri la prossima divinazione filosofica per mettere pesantemente i piedi nel piatto. Perché non lo fa?

La critica al “Sozialismus”

Perché. Perché. Perché. Cacciari non potrà mai accettare la Cosa 4. E ciò non a causa di D'Alema, ma per profondi convincimenti filosofici. “Appare evidente da tutto quel che abbiamo detto finora che la riflessione di Cacciari ha come presupposto fondamentale la critica nietzschiana al Sozialismus”, così riassume lo studioso Nicola Magliulo l'itinerario filosofico dell'attuale sindaco di Venezia.

Bisogna sapere, infatti, che già nel fatidico 1976 Cacciari pubblica Krisis, un saggio molto severo con la socialdemocrazia europea e la sua malattia storica, l'empiriocriticismo (così si chiamava il “relativismo” ai tempi di Lenin che scrisse sull'argomento un celebre pamphlet).

E già nel fatidico 1976 Cacciari è incline alla politica. Reduce giovanissimo da Potere Operaio aderisce al PCI diventando coordinatore della Commissione regionale veneta per l'Industria.

Sempre nel fatidico 1976 il Partito lo candida alla Camera dei deputati, dove rimane due legislature, fino al 1983. La sua avventura parlamentare coincide dunque con il chiasma di tempo in cui va consumandosi la decadenza politica del PCI di Berlinguer mentre Craxi ascende dalla segreteria del PSI al governo del Paese.

Cacciari esce dal parlamento e si allontana dalla politica attiva. Si narra che De Michelis o chi per lui gli proponga di saltare sul carro del PSI. Lui declina l'invito: “No, grazie, sono già ricco di famiglia”. Una sferzata che entrerà negli annali dell'inimicizia fraterna italiana, ma che segnala anche un'ambivalenza quasi perfetta tra understatment berlingueriano e guasconeria craxiana.

Come picconatore post-comunista ante litteram il filosofo lagunare assume nel tempo una statura politica crescente. “Trent'anni fa speravo con altri di poter imprimere una svolta al Pci”, ricorda. “Poi ci ho provato con Occhetto, quindi con il partito dei sindaci, con l'Asinello di Prodi, con la Margherita e infine con il Pd. Quel che ora dice Rutelli io l'avevo detto molto tempo prima”.

La “società civile” e la denuncia di De Magistris

Al netto dei segnali trasversali, si riconosce in questa autodescrizione un tratto saliente (ma drammaticamente perdente) della transizione italiana: l'antitesi tra “società civile” e “politica”.

A nostro sommesso parere, questa contrapposizione, andrebbe superata se non altro per rispetto della lingua. Infatti, la parola “civile” proviene dal latino civilis che è sinonimo, e non contrario, del greco politiké, da cui proviene “politica”.

La “società civile” – ossia la comunità di coloro che vivono nella civitas – non si distingue materialmente dalla comunità di coloro che vivono nella polis. L'abitante della “città”, il “cittadino”, si chiamava civis a Roma e ad Atene polìtes. Questo, a meno che non s'intendesse un “privato cittadino”, calcando l'accento sull'aspetto “privato” della non-partecipazione e dell'estraneità alla vita pubblica. In tal caso gli ateniesi non parlavano di polìtes, ma piuttosto di idiòtes, espressione che non costituiva necessariamente un insulto e stava a significare semplicemente “uno di lì”. La lingua francese conosce una distinzione analoga giustapponendo il “cittadino” (citoyen) al semplice “abitante del borgo” (bourgois), da cui la parola “borghese”.

Giunti sin qui segnaliamo il caso notevole di una locuzione usata da Luigi De Magistris in visita a Zurigo il 23 ottobre scorso. L'espressione è: “borghesia mafiosa”. Con essa De Magistris intende “quella rete d'imprenditori, professionisti e anche uomini di Chiesa” che nelle regioni ad alta densità criminale si spartiscono il denaro pubblico, “che è praticamente l'unica fonte di reddito in un panorama imprenditoriale gracilissimo”.

La “borghesia mafiosa” tende a privatizzare la politica, e De Magistris insieme a Flores D'Arcais ha recentemente messo in luce la presenza di massicce opacità “privatistiche” (per non dire “familistiche”) persino dentro al suo proprio partito, quello nel quale l'ex magistrato ha accettato di candidarsi alle europee.

Privatizzazione della “politica”

La privatizzazione della politica serve alla “borghesia mafiosa” per accedere al pubblico denaro, usando ove possibile la frode, ove necessario la violenza.
Un macroscopico esempio di violenza mafiosa furono gli attentati nell'anno 1993. Ricordiamoli. La strage di Via dei Georgofili a Firenze uccise cinque persone e ne ferì 48. In Sicilia persero la vita i giudici Falcone, Borsellino e Francesca Morvillo (moglie di Falcone) oltre che otto agenti di scorta. Altri attentati mafiosi vennero compiuti nello stesso anno a Milano (in via Palestro, dove un'autobomba provocò cinque morti: tre vigili del fuoco, un vigile urbano e un cittadino straniero che dormiva su una panchina) e a Roma contro il giornalista Maurizio Costanzo, oltre che alle chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro. Questi tre ultimi causarono “solo” dei feriti, ma un quarto attentato era stato frattanto programmato allo Stadio Olimpico con lo scopo di provocare una sanguinosissima strage tra le forze dell'ordine. Non venne eseguito, forse per un contrordine dell'ultimo minuto.

Esempio macroscopico di frode fu la “trattativa tra lo Stato e la mafia”, trattativa che in parte corse parallela a quel macello. È lecito chiedersi se di quel contesto non facessero parte anche “i contatti avvenuti nell'autunno del 1993 tra il futuro organizzatore di Forza Italia, Marcello Dell'Utri, e l'emissario di Cosa Nostra, Attilio Mangano”, come ritiene l'europarlamentare ed ex procuratore De Magistris (ma non solo lui).

Che cosa chiese la “borghesia mafiosa” nel 1993 al sistema politico? Chissà se e quando i giudici (o gli storici, o eventualmente i filosofi) sapranno mai spiegarci che cosa accadde esattamente in quell'anno orribile in cui lo Stato (la polis, la Politica, la società civile tramite i propri legali rappresentanti) e l'Antistato (la “borghesia mafiosa”) convennero una misura media tra loro. Civiltà più Stragismo diviso due. E nacque la Seconda repubblica.

Nel 1993, con tutti gli assi in mano. . .

Qui ritorniamo al sindaco-filosofo di Venezia. “Nulla vieta di pensare che, se Segni e Occhetto nel 1993, quando si trovano tutti gli assi in mano. . .” – dice Cacciari alcuni giorni fa presentando “La svolta, lettera a un partito mai nato” di Francesco Rutelli. A mezzo della frase, però, il sindaco-pensatore si ferma come per un'esitazione, cambia progetto sintattico e prosegue con queste parole: “Insomma, quel giro di poker potevano vincerlo facilmente. Avevano tutto in mano. Tutto! Segni in particolare. E si fottono invece in un modo che ha dell'incredibile! Incredibile! Poi noi razionalizziamo tutto. Ma non c'è niente di razionale nel fatto che poi in questo Paese ci siamo beccati Berlusconi. C'era qualcosa che non funzionava nelle teste dei suddetti signori”.

Incredibile? Forse. Qualcosa non funzionava nelle teste? Probabile. Ma mentre il sindaco-filosofo sta pronunciando a Milano le sue irridenti parole, quello stesso giorno in quelle stesse ore a Roma il procuratore nazionale Piero Grasso depone dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia confermando in pieno ciò che De Magistris aveva detto a Zurigo e di cui abbiamo doverosamente riferito più sopra: “Mangano trattò con le sue vecchie conoscenze”.

Ricapitolando: nell'anno orribile 1993 c'era da un lato la “società civile” che, scassata a colpi di genio la “vecchia politica”, si fiondava nel “nuovo che avanza” alla quida della “gioiosa macchina da guerra”. Dall'altro lato, però, la “borghesia mafiosa” metteva in circolazione altre macchine da guerra, per nulla “gioiose” e anzi dolorose, volte a produrre una criminale interlocuzione al plastico.

Insomma, come si vede, il nostro problema principale non è mai stato l'empiriocriticismo di Aveanarius, Mach e Bogdanov. E quindi c'è poco da fare gli schizzinosi con quegli alleati internazionali che fossero ancora disposti a rischiare qualcosa puntando sulla nostra democrazia.

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