È ora di ragionare sul da farsi
“I recenti eventi politici non comportano nessun cambiamento nelle prospettive economiche italiane”. Parola di Mario Draghi. Sulle prime, l’affermazione fatta ieri dal governatore della Banca d’Italia, potrebbe essere interpretata come una prudente derubricazione della portata della “guerra istituzionale” che si è scatenata intorno ai “lodi” (Mondadori e Alfano) e alla teoria del “complotto” enunciata da Berlusconi. E magari come un saggio contributo a svelenire un clima che ha superato ogni tollerabile livello di tossicità. Ma se a questa frase di Draghi se ne aggiunge un’altra dello stesso Governatore – “la ripresa si preannuncia lenta e fragile” – e soprattutto una pronunciata dal presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, secondo cui “la ripresa in Eurolandia si prospetta disomogenea”, si può leggere il pensiero di Draghi anche come un monito traducibile in: “guardate che l’Italia sta messa male, non aspettiamoci che sia la congiuntura internazionale a risolverci i problemi, e se la politica pensa ad altro, allora saranno guai seri”. Interpretazione assolutamente libera, la mia, ma credo non infondata.
E che comunque corrisponde al pensiero prevalente del mondo imprenditoriale, che è vivamente preoccupato della condizione di crescente instabilità politico-istituzionale del Paese, tanto più inspiegabile e inaccettabile se si pensa ai margini parlamentari mai così ampi di cui dispone la maggioranza, alla semplificazione che le ultime elezioni politiche hanno prodotto e alla crisi della sinistra che rende l’opposizione – con le eccezioni di opposta qualità dell’Udc e dell’Idv – praticamente inesistente.
Io non so chi ieri sera fosse invitato a Villa Madama per una di quelle cene con imprenditori in cui il premier è uso infondere ottimismo anche a costo di infliggere qualche barzelletta di troppo (di solito convoca quelli più fidati), ma sono sicuro che se avesse per una volta ascoltato, sollecitando un confronto vero e franco, si sarebbe accorto che il mondo economico guarda attonito alle vicende in atto, e appare sempre meno disposto a parteggiare per l’uno o l’altro dei contendenti, sia per una forma di repulsione complessiva verso la politica (e che mi riesce sempre più difficile liquidare solo come qualunquista) sia per la crescente convinzione che i torti non stanno da una parte sola.
Per esempio, si può tranquillamente sostenere che le modalità di composizione della Corte Costituzionale la espongono al rischio di essere o apparire “politicizzata”, ma nello stesso tempo dire che la sentenza sul lodo Alfano è sostanzialmente corretta. Oppure si può (e si deve) rifuggire dal peronismo di chi pensa che il consenso popolare permetta qualunque cosa, configurando così una “tirannia della maggioranza”, e contemporaneamente denunciare il giustizialismo becero di chi solletica i peggiori istinti autoritari e forcaioli che ci sono nel Paese.
Si può credere alle denunce berlusconiane che una parte della magistratura agisca a senso unico – anche perché non riguardano solo lui – e nello stesso denunciare che proprio i suoi governi non sono stati capaci di fare una riforma della giustizia organica e radicale, a cominciare dalla separazione della carriere.
Non si tratta di cerchiobottismo, ma di una valutazione delle motivazioni di sistema della crisi in atto, sempre più somigliante a quella del 1992-94.
Non ho creduto alla teoria del complotto allora – quando, per la verità, c’era più di un indizio e ben più fondamento di ora – a maggior ragione non ci credo oggi, considerato che i “poteri forti” tanto evocati altro non sono che ectoplasmi, che le “discese in campo” fatte balenare e poi puntualmente smentite fino alla noia hanno tolto ogni credibilità alle presunte alternative, che le iene mediatiche finora hanno solo fatto il gioco di chi vorrebbero sbranarsi e, infine, che l’alternativa politica a Berlusconi si è da tempo sciolta come neve al sole, liquefatta dalla catastrofica esperienza Prodi e dalla tragicomica disfatta del Pd.
Nello stesso tempo, faccio fatica ad esprimere la speranza – che non vedo fondata su alcuna evidenza, almeno fin qui, a ben 15 anni dalla famosa “discesa in campo” – di un Berlusconi virtuoso che trova, per il bene suo come nostro, la serenità di rapporti istituzionali corretti, la forza di fare le grandi riforme – quelle sì, rivoluzionarie – la capacità di usare il consenso popolare di cui gode per pacificare il Paese senza per questo voler consociativamente piacere a tutti, l’eleganza di rappresentare l’Italia sulla scena internazionale con dignitosa fermezza.
Capisco e apprezzo chi, da Ferrara a Folli, ieri ha chiesto al premier di tradurre il suo potere formale in egemonia politica. Ma non credo che loro siano meno scettici di me. Ed è da questa amara ma veritiera constatazione che dobbiamo partire per ragionare sul da farsi. (Terza Repubblica)