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No all’informazione al guinzaglio: 3 ottobre, una chiamata alle armi anche per il mondo universitario

di Fulvio Cervini

Lavoro all’Università, dove mi sforzo di parlare di arte, storia e tutela del patrimonio culturale italiano a molti studenti curiosi, intelligenti e soprattutto smaniosi di costruirsi degli strumenti critici per capire un mondo che a tratti sembra incomprensibile, ma che di sicuro più non avrà senso se perdiamo di vista quella straordinaria sedimentazione storica e artistica che dovrebbe rappresentare la spina dorsale dell’identità culturale italiana.

Mi glorio dunque di appartenere a quella che una caricatura di ministro ha definito un’élite stercoraria (cerco di riportare il suo lessico alla dignità di un’aula accademica) che produce culturame. Ora, il culturame che cerco di produrre nel mio modesto laboratorio didattico-scientifico, al pari di quello che la maggior parte dei miei colleghi coltiva, è fondato essenzialmente sulla verifica, l’interrogazione e il paragone delle fonti, nel segno di un’apertura intellettuale che ha l’obbligo deontologico di considerare informazioni e punti di vista diversi affinché ciascuno di noi – sia esso docente, discente ma soprattutto buon cittadino – possa costruirsi criticamente una sua autonoma e libera opinione, se non una sua visione del mondo, nella ricerca costante e metodica di una certa verità.

La civiltà – questo provo quotidianamente a insegnare, con la percentuale di errore che la fallibilità umana comporta – si plasma, si fortifica e si difende giorno dopo giorno ponendosi continuamente domande e sottoponendo le risposte a una critica serrata. Ma questo processo non può tollerare alcun condizionamento che non sia interno al metodo della ricerca. Non può essere la politica – né tanto meno una volgarissima scimmiottatura di politica – a scrivere l’agenda della ricerca e della didattica, ma deve anzi essere la ricerca a promuovere con gli strumenti di cui è capace una cultura che sia politica nel senso greco e originario del termine. Il giorno che me lo dimenticassi, ovvero – per opportunismo, rassegnazione o che altro – facessi finta di dimenticarmelo, entrerei in aula senza poter guardare in faccia un solo studente.

Ecco perché la manifestazione di sabato 3 ottobre in difesa della libertà di stampa deve suonare come una chiamata alle armi anche per il mondo universitario: perché ad essere in gioco è la libertà di informare come un aspetto di una più grande e vitale libertà di espressione critica, in cui la ricerca e la didattica svolgono una funzione essenziale. Ed è in gioco il rispetto delle istituzioni, ormai umiliate e vilipese con flemmatica cadenza oraria.

Direbbe Pascal che non possiamo chiamarcene fuori, è obbligatorio scommettere e anche noi siamo incastrati. Come possiamo insegnare ai nostri studenti a porsi domande se là fuori si risponde solo alle domande gradite? Come posso educare una coscienza critica se sono altri a stabilire, e con pretesa di insindacabilità, di che cosa devo parlare? E a maggior ragione se queste pretese poggiano su un’ignoranza crassa e greve, pari soltanto al disprezzo professato per una qualsivoglia attività intellettuale? E posso accettare che un mestiere delicato come il mio, lungi dall’essere ritenuto il pilastro del progresso civile della nazione, sia al più oggetto di lazzi e cachinni?

Della costituzione italiana sono dunque seriamente minacciati – per non dire violentemente aggrediti – non solo l’articolo 21, ma pure il 33 e persino il 9. E basti ancora riflettere, anche solo per un istante, quanto il rispetto dell’altro e la garanzia dei diritti civili fondamentali della persona si costruiscano prima di tutto a scuola, attraverso una formazione attenta al confronto, al dialogo, alla curiosità verso ciò che non appartiene al cerchio brevissimo della nostra quotidianità immediata. Il vile respingimento dei migranti, la loro condanna a un destino segnato, come pure l’assenza di umana pietà nei loro riguardi, cominciano in quelle aule dove non ci si è troppo preoccupati di formare una coscienza civile, e non solo le nozioni di un mestiere (il saper fare invece del saper essere). E chi rimuove da una biblioteca la targa che ricorda Giuseppe Impastato è prima di tutto un soggetto che mostra di aver avuto scarsi contatti con qualsivoglia culturame. La questione, insomma, trascende di gran lunga il rapporto bilaterale tra giornali e potere e investe direttamente e profondamente la vita, e le aspettative di vita, di chi intenda definirsi civile.

Constato con amarezza che in queste ore cruciali lo schieramento dell’Università in difesa dei principi stessi della sua esistenza è stato costellato di adesioni individuali, anche illustri o vibranti, ma non da una vera azione coordinata. Ma non si può affrontare questa lotta lasciandola fuori dall’Università. Sarà una lotta di lungo periodo, perché ci vorrà tempo per disintossicare un Paese ben più che stordito.

Dunque non si esaurirà la sera del 3 ottobre, quando non potremo tornarcene a casa contenti di esserci stati e poi rimetterci a coltivare piccoli e sterili orti come se niente fosse. Dovremo anzi proseguire questa lotta di civiltà seguitando a manifestare, certo, a schierarci, a dichiararci; ma soprattutto parlando, insegnando, scrivendo, discutendo, ciascuno secondo i propri mezzi e possibilità, con l’obiettivo di formare dei cittadini in luogo di consumatori o peggio di sudditi (e magari di reprimere un po’ il consumatore suddito che è dentro di noi). E ancora proponendo ai nostri ragazzi un modello di docente che non si limiti a parlare (anche con i colleghi) di crediti, debiti, moduli, sottosemestri, governance e rapporti di autovalutazione, ma sappia entrare, almeno qualche volta, nel merito dei fondamenti morali della disciplina praticata e insegnata. E per questo non basta mettere una firma in coda a una petizione, perché bisogna assumere atteggiamenti coerenti col significato di quella firma.

Potremmo cominciare deponendo le attestazioni di solidarietà, che ormai non si negano a nulla e nessuno, mettendo invece in primo piano un ritrovato senso di corresponsabilità. Ciascuno di noi deve poter far sue le ragioni di un giornalista, uno scrittore, un intellettuale che viene insultato e intimidito, quando non minacciato, per la colpa di voler svolgere il proprio mestiere adoperando la propria testa in vece di conformarsi a quella degli altri (spesso e volentieri vuota). Quella lotta non deve essere soltanto la sua lotta, ma la mia e la nostra, perché in pericolo è la mia vita e ancor più quella che voglio assicurare ai miei figli.

In questa vita ho ancora l’imperativo categorico di sentirmi fratello di sangue di chi è vittima di censure e intolleranze come di fanatismi e razzismi: sciagure che ci siamo illusi di non più rivivere, ma che ora possiamo e dobbiamo riprendere a contrastare anche in un’aula, adoperando la luce della ragione e la passione della dignità.

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