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Premiata ditta Tremonti- Sacconi e partecipazione agli utili: come imbrogliare meglio i lavoratori!

In una normale economia di mercato il capitalista(K) ci mette i soldi, l’imprenditore(I) organizza i fattori di produzione, tra i quali ve ne è uno un po’ particolare e cioè il lavoro (L). Il lavoro viene remunerato attraverso salari e stipendi (W), l’imprenditorialità ed il capitale attraverso il profitto (P) che è quanto residua dopo aver pagato gli altri fattori, compreso lo Stato(T).
Lo Stato fa da regolatore per impedire che si formino posizioni dominanti (monopoli o oligopoli). Non sempre le cose funzionano così semplicemente. In Italia ad esempio vi sono almeno due diffuse anomalie, anche indotte dall’esistenza di una rete diffusa di Piccole e Medie Imprese (PMI). La prima è che imprenditore e capitalista spesso coincidono, ma quasi sempre in realtà c’è solo l’ imprenditore (senza capitale). La seconda, che discende dalla prima, è che il capitale che manca viene fornito dal sistema bancario e dall’eventuale autofinanziamento (cioè dalla mancata distribuzione del profitto, che a questo punto ci sarà solo se oltre a tutti gli altri fattori produttivi viene pagato anche il prezzo del finanziatore, cioè l’interesse). Date queste condizioni ha senso parlare di partecipazione agli utili dei lavoratori (proposta da Tremonti) come di “una grande idea” che sarà legge entro l’anno (secondo Sacconi)? Affrettandosi a precisare subito dopo che “si tratta di far partecipare i lavoratori agli utili, non alla gestione”, affinché la Confindustria non si preoccupi troppo. (Ci mancherebbe! Con la moglie di Sacconi direttore generale di Farmindustria!) Ma c’è davvero qualcuno che possa pensare che un po’ di azioni date ai lavoratori possano far “declinare il conflitto di classe con la piena condivisione del capitale e del lavoro con una prevalenza concettuale (sic!) del secondo sul primo”, come sostiene Sacconi. Siamo veramente ancora una volta di fronte ad una nuova trovata mediatica del governo, al tipico atteggiamento da “socialisti di potere” , come Sacconi e Brunetta, o convertiti sulla “via di Damasco”, come l’ex liberista(non liberale) Tremonti. Come ho spiegato recentemente in un blog sul “capitalismo nordico” nelle economie avanzate dove le differenze di remunerazione tra lavoratori e manager sono sensibili ma non assurde (si pensi ai 50 milioni di euro di stock option in due anni da parte di Corrado Passera, amministratore delegato di Intesa S.Paolo) e dove tutti pagano le tasse non c’è bisogno di simili trovate. Là la partecipazione dei lavoratori alle strategie aziendali è un fattore consolidato. I dipendenti siedono in molti consigli di amministrazione permettendo alle imprese di realizzare importanti ristrutturazioni con la cooperazione dei lavoratori. Un manager di una importante impresa danese sostiene che “E’ più facile assumere gente quando le cose vanno bene e ridurre il personale in periodi meno buoni”. Di fronte ad un bisogno di riduzione di personale del 30% dirigenti e occupati discuterebbero se tagliare i posti di lavoro linearmente oppure se passare a tempo parziale il 60% di essi. Tornando all'Italia, in ogni caso semmai avrebbe senso una legge alla tedesca (Mitbestimmung), che preveda la partecipazione dei lavoratori alla gestione e non la loro esclusione come vogliono Tremonti e Sacconi. In quel caso anche il sindacato potrebbe investire nelle imprese. Altrimenti può anche darsi che a qualcuno faccia comodo affibbiare un po’ di azioni ai lavoratori in cambio del salario, degli straordinari o della liquidazione. Ma sarebbe un “déjà vu”, cioè finirebbe come con Alitalia: i lavoratori che hanno accettato uno scambio di tal genere l’hanno pagato caro: gli obbligazionisti avranno il 70% del valore tra tre anni, gli azionisti praticamente nulla.

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