L’Europa che ci attende

di Gianni Vattimo (candidato per l’Italia dei valori)

Lo so, è un post un po’ lungo. Ma di Europa, in campagna elettorale, si parla poco. E allora approfitto delle possibilità offerte dal blog per proporre qualche spunto di riflessione sul senso delle prossime elezioni. Chi ha più sentito parlare di Europa, negli ultimi cinque anni?

Certo, tutti ricordiamo l’allargamento a 25 stati e le alterne vicende del trattato di Lisbona, nuovo accordo tra gli stati dell’Unione che anziché sostituire, integrando e comprendendo, il Trattato di Maastricht (che istituì l’Unione, nel 1992), quello di Roma (che istituì la Cee, nel lontano 1957) e la Carta europea dei diritti fondamentali (la Carta di Nizza, del 2000), si affianca ai predecessori complicando ulteriormente la struttura costituzionale europea. Una tappa storica, di quelle che verranno ricordate dagli studenti dei corsi di relazioni internazionali e integrazione europea, come l’Atto Unico del 1987, il completamento del mercato unico nel 1992, e i trattati appena ricordati qui sopra. Con le nuove elezioni del Parlamento europeo, ecco le solite discussioni sulla scarsa presenza dei temi europei nella campagna elettorale, sullo stipendio dei parlamentari, sull’assenteismo dei nostri rappresentanti. Oltre, come sempre, non si va. Ed è un peccato, alla luce della continua, allarmante riduzione del dibattito democratico nel nostro parlamento nazionale – prova ne è il continuo, vergognoso attacco portato da Berlusconi, che naturalmente, e purtroppo, raccoglie consenso tra gli Italiani esausti dei costi della politica. Che il Parlamento italiano sia divenuto, volente o nolente, poco più di una cassa di risonanza del premier, aiutato in ciò dai media televisivi, è appunto un’occasione formidabile per il Parlamento europeo, chiamato ora più che mai ad aiutare l’Italia a riprendersi dal torpore tendenzialmente autoritario nel quale versiamo.

Già, ma è risaputo – forse – che il Parlamento europeo “conta” poco, tutto sembra in mano alla Commissione (l’artefice del mercato unico) e al Consiglio, composto dai governi degli stati nazionali). Anche se in Europa la suddivisione dei tre poteri è meno netta, rispetto alla situazione degli stati nazionali (la Commissione è il potere esecutivo, ma possiede poteri di iniziativa legislativa; il Consiglio e il Parlamento, dunque non solo quest’ultimo, sono il potere legislativo), è chiaro che il Parlamento è l’anello debole della catena legislativa europea. E allora forse si spiega almeno in parte perché del Parlamento europeo si parli così poco, sui giornali e nei programmi televisivi italiani. Eppure quando sono stato parlamentare europeo, tra il 1999 e il 2004, di Europa si parlava eccome. Forse perché eravamo ancora prede della sbornia seguita alla costituzione dell’Unione Europea, all’ingresso faticoso dell’Italia nell’Europa di Maastricht, poi all’entrata in vigore dell’euro e alla creazione di una convenzione, quella che poi avrebbe scritto l’avveniristica (almeno inizialmente) Carta europea dei diritti fondamentali, che sembrava rappresentare le migliori speranze del continente. In negativo, l’Europa faceva capolino sui media italiani all’epoca del semestre di presidenza italiana con lo scontro tra Berlusconi e Schulz e la consegna ai parlamentari europei, da parte mia, di un opuscolo a firma di Marco Travaglio, tradotto in cinque lingue, illustrativo della figura del nostro presidente del consiglio. E ancora, con la scoperta del sistema Echelon (ho fatto parte della commissione d’inchiesta), una vera e propria struttura di spionaggio messa in atto dagli Stati Uniti e dalla stessa Inghilterra, con Canada, Australia e Nuova Zelanda; e con il dibattito sulle radici cristiane dell’Europa. Ma il clima, in generale, pareva diverso: per continuare con gli esempi legati alla mia persona, il 31 maggio 2003 (finivano in quei giorni i lavori della Convenzione) avevo promosso un’iniziativa che coinvolgeva alcuni intellettuali europei (Habermas, Derrida, Eco, Savater, Muschg e Rorty), tutti disposti a pubblicare – io scrissi su La Stampa un articolo dal titolo “Casa Europa” – un saggio sul futuro dell’integrazione europea, ciascuno su un importante quotidiano nazionale europeo.

Per quali motivi, oltre a quelli appena ricordati, negli ultimi cinque anni l’Europa, e con essa il suo parlamento, si sono allontanati dall’opinione pubblica italiana? Credo che una delle ragioni, non l’ultima, abbia a che fare con la qualità, per così dire, dei nostri rappresentanti. Prendiamo la squadra dei DS ai tempi del mio mandato, e lasciamo perdere la mia persona – anche se, dato che si trattava del mio primo impegno politico “istituzionale”, la mia candidatura era effettivamente espressione della cosiddetta società civile, che non a caso ritorna nelle parole usate da Di Pietro in questa campagna -: in quella squadra comparivano Giorgio Ruffolo, padre della programmazione economica italiana nel dopoguerra e fine intellettuale libero dai pregiudizi del pensiero unico economicistico, presidente della commissione Cultura al Parlamento europeo; Elena Paciotti, in precedenza presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, componente, come me, della commissione Giustizia e Affari Interni al Parlamento europeo; Giorgio Napolitano, presidente dell’importante commissione Affari Costituzionali del Parlamento. Persone che certo non possono essere chiamate in causa quando si parla del Parlamento europeo come pensionato dei politici italiani o raccoglitore dei nani e delle ballerine che affollano la società mediatica del nostro paese. Persone, soprattutto, con le quali ho condiviso un itinerario in Europa, e dalle quali ho imparato quasi tutto quello che so in merito ai compiti di un parlamentare europeo. Persone, infine, il cui lascito non è stato raccolto, penso, dai loro successori nei cinque anni seguenti. Gli stessi incarichi ricoperti dai miei compagni di avventura in quei cinque anni segnalano la presenza di un vero e proprio progetto politico, culturale e sociale.

Credo si possa affermare che proprio questa dimensione progettuale sia venuta meno (non solo mediaticamente) nel corso degli anni, e che al contrario chi si candida oggi al Parlamento debba incaricarsi di recuperarla, per il bene dell’Europa e dell’Italia con essa. Alla domanda di un conduttore televisivo, “Qual è l’Europa dei sogni di Gianni Vattimo?”, ho risposto, senza troppe esitazioni, “Un’Europa che non debba vergognarsi dell’Italia”. Ma come, mi si obietterà: non si tratta della solita svalutazione dei temi europei a vantaggio dell’interesse nazionale? Proverò ad argomentare che non è questa l’interpretazione corretta, e che anzi in quella frase si cela appunto quella dimensione progettuale di cui ho appena scritto. Un’Europa che non debba vergognarsi dell’Italia è un’Europa che aiuta l’Italia a tornare (non si può più dire “rimanere”, purtroppo) in essa. È cioè un’Europa che sprona – al limite costringe – l’Italia ad adottare una legge seria sul conflitto d’interessi, una legge equa e solidaristica sull’immigrazione, una legislazione “europea”, appunto, in tema di giustizia (processi più rapidi, certezza della pena, depenalizzazione dei reati che reati non sono – penso all’uso di determinate sostanze stupefacenti, ad esempio, o allo stesso, barbaro, reato di clandestinità – e al contrario severità nei confronti di coloro che alimentano conflitti sociali per fini di profitto – le mafie che controllano il mercato della droga, per continuare con gli stessi esempi, e quello della stessa immigrazione clandestina), una legislazione sociale al passo coi tempi e soprattutto con i più deboli (precari, disoccupati, morti sul lavoro), una legislazione libertaria in materia di diritti civili (io stesso sono uno dei 9 – ! – candidati Glbt alle elezioni europee), una legislazione meno (o non) vaticanesca in tema di ricerca scientifica, una politica universitaria che sconfessi in tutto e per tutto la sciagurata riforma del nostro governo, una politica ambientale contraria a quella seguita dall’esecutivo italiano, difensore dei soli interessi industriali (non tutti, solo quelli amici), ecc. Potrei continuare per quasi tutte le materie di dominio ancora riservato, purtroppo, degli stati nazionali, che nel nostro caso è un dominio riservato a una sola persona.

In fondo, se ci si stupisce del fatto che una percentuale sempre crescente (e maggioritaria) della legislazione italiana proviene dall’Europa, è perché, fortunatamente per noi, l’Europa si basa sul principio delle migliori prassi, che va interamente a nostro vantaggio. I problemi rimangono dal lato della traduzione delle direttive europee in linguaggio legislativo italiano e della loro applicazione, nonché nella possibilità che il nostro governo conserva di eludere quegli stessi principi in molte delle materie che non fanno parte della costruzione economica dell’Europa. Quando mi chiedono “perché con Di Pietro”, rispondo osservando che il programma della lista nella quale sono candidato è ispirato a un principio di base: il rispetto e la difesa della costituzione. Aggiungo che se davvero riuscissimo a impegnarci in tal senso, suscitando il consenso degli Italiani su questo programma, ci trasformeremmo in una repubblica di stampo (ideale) socialista: Berlusconi ricorda che la Costituzione è stata scritta dai comunisti e dai cattolici di sinistra, cui vanno però affiancati i liberali (ma Berlusconi non lo ricorderà mai), gli azionisti, e così via, le parti migliori della società italiana finalmente libera dal fascismo. Calamandrei ha sempre sostenuto che si tratta di una costituzione decisamente avanzata, forse la più progressista tra quelle del continente europeo. Una costituzione calpestata, soprattutto nella sua ispirazione di fondo, da un’evoluzione politica inimmaginabile, fino a pochi anni fa. Un’Europa che non si vergogni dell’Italia è ovviamente un’Europa contenta di averci con sé; di osservare che abbiamo tenuto fede agli ideali di cui erano portatori quei militanti federalisti (Spinelli in primis) che scrissero, in quegli stessi tempi nei quali l’Italia migliore cominciava a immaginare un futuro antifascista, un programma di pace e integrazione che faremmo bene a rileggere oggi. Un’Europa, potremmo spingerci a dire, che guarda all’Italia come a una sua avanguardia – ciò che nel passato è stata, al contrario di oggi, almeno in alcuni periodi.

Ma l’Europa ci aiuterà a conseguire questo risultato? Dipende dal contributo che l’Italia saprà dare in tal senso. L’Europa non è un paradiso, non è una panacea. L’Italia e l’Europa hanno in fondo un destino comune: indietreggiano e avanzano insieme (si ricordi la presidenza Malfatti, o il semestre italiano del 2003). Né la prima (come potremmo sostenerlo?) né la seconda (per ora) sono “un modello per il mondo” – come invece sosteneva, con riferimento all’Europa, la parlamentare europea che mi è succeduta. Legittimamente, l’Europa è indicata come esempio di modello sociale di successo, ancora fortunatamente lontano dall’American way of life applicato alle relazioni sociali. Concertazione, attenzione per le esigenze del mondo del lavoro oltre che dei datori di lavoro, sensibilità per la responsabilità sociale delle imprese, e via discorrendo. Tutto bene; ma invocare il modello sociale europeo come modello per il mondo diverrà sempre più difficile se:

continueremo a spingere, contro la nostra stessa tradizione, per politiche dell’offerta (imprenditoriale) anziché della domanda (o keynesiane, se volete), se cioè nel seguire la Germania comprimeremo sempre più costi e salari a vantaggio delle industrie esportatrici e a danno della domanda interna;
se continueremo ad accordare un vantaggio competitivo, per così dire, ai grandi gruppi di pressione industriali (primo fra tutti la European Round Table of Industrialists, ERT, che comprende una cinquantina tra le maggiori corporations che operano in Europa come Fiat e Pirelli, Nokia e Samsung, Nestlé, e via dicendo, e cioè i principali sponsor del completamento del mercato unico europeo nei primi anni Novanta), sui gruppi portatori di interessi non direttamente connessi con la produzione di ricchezza: tra questi i sindacati, il cui potere è di fatto consultivo (contro un potere tacito d’iniziativa legislativa concesso all’ERT), e tutte quelle associazioni (sociali, ambientalistiche, ecc.) che di solito l’Europa nomina per veicolare l’immagine di un pluralismo nella rappresentazione degli interessi;
se rifiuteremo di prendere coscienza del fatto che il mondo è cambiato, e che la presenza sulla scena globale di attori nuovi, dalla Cina all’India, al Brasile e la Russia, dal Sud Est Asiatico ad alcuni paesi africani, comporta cambiamenti anche nella percezione del nostro modello sociale. È davvero ancora possibile parlare di modello sociale europeo se poi (lo stesso dicasi per le politiche d’immigrazione degli stati membri) nel mondo, il nostro modello di relazioni internazionali ha un’impostazione simile a quella americana? Dov’è finita la nostra solidarietà nei confronti dei paesi un tempo colonizzati (i paesi ACP, Africa-Caraibi-Pacifico)? Nel perseguire altre strade rispetto a quelle tradizionalmente battute dagli Stati Uniti, l’America Latina è oggi anch’essa un nuovo “modello” di convivenza solidaristica, (pur con una serie di limiti) che occorrerebbe studiare seriamente, e al quale un’Europa progressista potrebbe guardare senza lo sguardo economistico che spesso utilizza al di fuori dei suoi confini.
se continueremo ad adottare politiche tipiche dei paesi in via di sviluppo, che hanno molte più ragioni di noi di comportarsi in tal modo, in un mondo nel quale i paesi in via di sviluppo esistono eccome, e lottano per integrarsi nell’economia globale. Gli squilibri internazionali, con tutto ciò che ne consegue per un mondo colpito dalla crisi finanziaria americana, non si devono esclusivamente all’equilibrio del terrore Usa-Cina, o alla difficile tenuta di un sistema nel quale gli Stati Uniti scambiano il proprio sovraconsumo con la possibilità offerta al Sud Est Asiatico di crescere per tramite delle esportazioni verso i mercati americani. L’Europa ha delle responsabilità, quelle appunto di non essersi fatta carico, insieme agli Stati Uniti, di una parte della domanda mondiale, e di essere ancorata a principi economici di dubbia utilità, quali quelli monetaristi, in un’epoca di recessione.
se non ci daremo da fare, per primi o con i primi, per una svolta decisa del nostro modello economico in favore delle energie rinnovabili e contro la privatizzazione dei beni essenziali; se continueremo a guardare con occhi nazionali l’evoluzione del sistema Fiat senza cogliere le tendenze in atto (i processi di razionalizzazione, nel sistema capitalistico, avvengono necessariamente per tramite della compressione dei costi e dunque dell’occupazione; tanto più in un mondo nel quale la capacità produttiva di automobili è già superiore alla domanda potenziale globale). Se, in termini più generali, non concederemo ai paesi in via di sviluppo la possibilità di sfruttare i vantaggi competitivi di cui godrebbero nei settori dell’agricoltura e delle costruzioni, per non citare che i maggiori, qualora l’Europa smettesse di appoggiare il protezionismo nascosto degli Stati Uniti.
se, infine, prevarranno le vecchie logiche, quelle che in positivo ci hanno condotto al completamento del mercato unico, e che in negativo perdurano tuttora, conducendo le politiche europee all’ossequio (unico) verso il criterio della competitività e dell’interesse finanziario – degli azionisti delle imprese – anziché reale, di creazione di ricchezza effettiva. Se cioè prevarrà il benchmarking, anziché le migliori prassi.
Certo, l’Europa è in molti sensi un’avanguardia, rispetto ai suoi stati membri; anche laddove – negli altri stati – questa caratteristica non le deriva principalmente dal retrocedere delle garanzie democratiche nazionali. Lo slogan del Gay Pride, “in Europa è diverso”, è illuminante. L’ultima ruota del carro europeo, e cioè il Parlamento, è un modello pressoché irraggiungibile dal suo omologo italiano: questo l’effetto del regime berlusconiano, ostacolato con debolezza dal principale partito di opposizione, il Pd. I tempi dei girotondi appaiono lontani e attuali al tempo stesso. Le tendenze autoritarie di stati nazionali come il nostro compaiono tra i motivi più rilevanti che spiegano lo stallo europeo. In sostanza, è un circolo vizioso: l’Europa non riesce, per ora, a salvare l’Italia, e l’Italia non contribuisce al progresso europeo. Perché l’Europa riesca a redimerci, è necessario ampliare la dotazione di risorse a disposizione delle autorità sovranazionali – l’annosa, e vergognosa, questione di un bilancio comunitario al quale gli stati membri rifiutano contributi di peso – e velocizzare il processo di democratizzazione delle istituzioni. Ma allora il salvataggio dell’Italia è anche tra i fattori che possono contribuire al rilancio europeo: è per tramite di un’Europa più “pesante”, in termini di potere decisionale e capacità di farsi sentire sui cittadini degli stati membri (tra gli esempi più e meno banali al contempo, il programma Erasmus) che l’Europa salverà l’Italia, e potrà al contempo, e finalmente, realizzare i sogni dei primi federalisti. Di qui l’importanza del Parlamento europeo, oltre che dell’Europa tutta.

Un candidato al Parlamento europeo potrebbe elencare una serie di provvedimenti che, se eletto, si sforzerà di far passare. Ma sarebbe inutile. Il potere di iniziativa legislativa, come detto (e nonostante i passi avanti compiuti sulla strada della codecisione), è di fatto concesso alla Commissione e al Consiglio. Per questo, e per le traiettorie storiche compiute dal Parlamento europeo (che nei primi anni di elezione democratica, dal 1979 in avanti, non si divideva tra destra e sinistra ma tra europeisti e non), è necessario che i candidati si facciano portatori di un progetto, la cui realizzazione dipenda certo, ma non in modo esclusivo, dai singoli rapporti che ciascuno di essi sarà chiamato a redigere sulla base delle proposte della Commissione. Vent’anni fa, un discorso di questo tipo non sarebbe stato ascoltato da nessuno, perché dato ampiamente per scontato. Oggi, l’Europa è invece vista come terreno di scontro tra interessi nazionali, e tra interessi subnazionali, e il compito dei parlamentari europei consisterebbe esclusivamente nella difesa degli uni o degli altri. Io la penso diversamente. In Europa è diverso, si può (deve) elaborare una dimensione progettuale.

L’Europa che ci attende è un’Europa in balia degli eventi internazionali. Un’Europa impreparata, che segue, ma non partecipa. Non partecipa alla correzione degli squilibri globali, alle istanze di rinnovamento provenienti dagli Stati Uniti, a quelle di cambiamento provenienti dall’America Latina. Non sembra in grado di partecipare, più in generale, all’eventuale costituzione di un nuovo ordine globale, imperniato sul criterio di libertà anziché sulla disciplina. Un ordine cioè più vicino al compianto sistema di Bretton Woods che all’insensato suo successore, il “nonsistema” nato negli anni Settanta, poi attraversato dalla parabola del Washington Consensus per finire nella crisi attuale, che giunge paradossalmente al culmine di un processo di crescita sostenuto da quegli stessi squilibri di cui ora ci lamentiamo. Un nonsistema fondato sulla teoria dei mercati efficienti, sull’ennesima legge presuntamente naturale del mercato, che solo un uomo filosoficamente impoverito può porre alla base del suo agire, come se fosse venuto al mondo per rispettare ordini “naturali” anziché per realizzare forme di convivenza via via più sostenibili. Sarà difficile, spero impossibile, continuare a ragionare sulle politiche europee senza porsi il problema di definire un nuovo ordine, che ripudi la disciplina (politica ed economica) degli anni Novanta – le disastrose condizionalità del Fondo Monetario Internazionale – e dei primi anni del nuovo secolo – la campagna irachena del presidente americano e dei suoi seguaci -, e ponga nuovamente la libertà di scelta di ciascun paese del mondo di definire la propria via allo sviluppo come sua regola di fondo. L’Europa che ci attende è allora anche, e soprattutto, un’Europa che trasferisce sul piano delle relazioni internazionali i criteri solidaristici che ha introdotto al suo interno. Senza un nuovo ordine economico internazionale, l’Europa continuerà a giocare il gioco a somma zero che ha praticato negli ultimi anni, con buona pace, per altro, dei propositi ambientalisti, sacrificati sull’altare di una competitività internazionale ottenuta riducendo i costi di produzione.

Ho invocato più volte, in passato, i parametri di Maastricht per proporre una loro applicazione in altri ambiti, quali ad esempio quello dei diritti civili (stabilire cioè dei criteri minimi, e possibilmente più che minimi, per essere stati europei: unioni civili, parità completa, e così via) e della ricerca scientifica (veri e propri parametri per stabilire se le diverse università europee rispettano criteri di merito, di pubblica utilità, di valore della formazione offerta). Certo, mi si può obiettare che il modello di Maastricht è un modello disciplinare: se i paesi non rispettano le regole del rapporto debito/PIL e deficit/PIL, saranno raggiunti da un “early warning” della Commissione, che alla lunga si trasformerà in vere e proprie sanzioni. Ma il limite del modello di Maastricht esistente – il Patto di crescita e stabilità si fonda su quei parametri – risiedono non tanto nel suo essere statico anziché dinamico, quanto nello scarso contenuto di libertà (troppa stabilità e poca crescita) previsto. Se alla disciplina di Maastricht, necessaria ad armonizzare le politiche economiche europee, si affiancassero strumenti europei, appunto (ripetiamolo, il bilancio comunitario), per dotare il continente di strategie di crescita, di uscita dalla crisi, di crescita sostenibile, ecc., quei parametri godrebbero di stima diversa. Una Maastricht dei diritti, che presti ascolto al frutto più maturo e migliore del messaggio cristiano, quella della laicità, diverrebbe di per sé uno strumento di libertà, poiché sanzionerebbe le violazioni delle libertà dei cittadini degli stati membri, limitate da politiche reazionarie come quelle purtroppo seguite in Italia in merito ai temi della ricerca scientifica, degli orientamenti sessuali, della libertà (appunto) d’informazione, ecc. Una regolamentazione intelligente non si fonda sulle sanzioni disciplinari, quanto sulla libertà che per tramite di quella regola è possibile assicurare ai suoi destinatari.

Qualche anno fa, in un articolo che ha poi dato il titolo a un volume sull’Europa, argomentavo in favore di un processo d’integrazione continentale che recuperasse una visione della politica come grande impresa etica di promozione umana. Continuo a pensarla così: l’Europa è fortunatamente un ordine artificiale, con tutto il positivo che ne consegue (nasce non con la guerra ma con la pace, progredisce promuovendo le migliori prassi, ecc.); un ordine antinaturale, per così dire. È un modello di discussione libera ed argomentata, che ha lo scopo non di raggiungere una dimostrazione definitivamente fondata, ma di stabilire un accordo rivedibile, certo, che però impegna i contraenti (gli stati nazionali, noi cittadini) in modo ben più serio di quanto farebbero le leggi “naturali”. Ancora oggi, come allora (scrivevo nel 2002), un programma di sinistra può e deve identificarsi come programma dell’integrazione europea. Le condizioni indispensabili della libertà – sicurezza, giustizia e sua efficacia, qualità della vita sociale, sostenibilità ambientale – si possono dare, in Europa, solo all’interno di un’integrazione più decisa. Parlando di relazioni internazionali, quelle stesse condizioni di libertà saranno difese solo da un’Europa che sappia immaginare un programma di riduzione delle proprie pretese (protezionismo contro i paesi emergenti, ad esempio) a vantaggio di un futuro più pacifico, e dunque delle proprie condizioni economiche e sociali di sopravvivenza.

Concludo: l’Europa che ci attende è, in tutti i sensi, un’Europa che non ci attende. Non aspetterà che il regime italiano si “normalizzi”, trasformandosi definitivamente nel dominio esclusivo del premier per poi aiutare il nostro paese a risalire dopo aver toccato il fondo. Dobbiamo muoverci subito, proponendo all’Europa quello scatto in avanti nel processo d’integrazione che costituisce il nostro unico strumento di salvezza, strumento del quale in Italia non riusciamo a trovare un sostituto. Mai come ora, abbiamo bisogno dell’Unione europea, nella speranza che ciò che riusciremo a fare, a Strasburgo, per approfondire la democrazia europea, divenga per l’Italia quel tanto di “sovversivismo democratico” che in patria fatichiamo a stimolare. (Micromega)

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