Deputati e numeri

La sfida delle riforme costituzionali

È ora di cambiare e non di lasciare le cose come stanno
Livio Ghersi

La Costituzione della Repubblica italiana entrata in vigore l’1 gennaio 1948 stabiliva che dovesse essere eletto un deputato “ogni ottantamila abitanti, o frazione superiore a quarantamila”. Allora si era appena usciti dalla guerra e non si prevedeva la crescita demografica che ci sarebbe stata. Se quel criterio fosse rimasto immutato, la Camera dei deputati oggi dovrebbe essere composta da 750 membri circa.

Nel 1963 (con legge costituzionale 9 febbraio 1963, n. 2) fu stabilito il numero fisso di 630 deputati. Troppi? Certamente troppi, se si tiene conto che, ad esempio, negli Stati Uniti la Camera dei Rappresentanti è composta da 435 deputati, a fronte di una popolazione di oltre 281 milioni di abitanti; o che in Germania il Bundestag è attualmente composto da 614 deputati (ma la composizione normalmente prevista sarebbe di 598), a fronte di una popolazione di oltre 82 milioni di abitanti.

In questi giorni di campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento Europeo, l’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri, e con lui altri politici smaniosi di mettersi in sintonia con gli umori dell’elettorato, sembrano fare a gara nel proporre significative riduzioni della composizione della Camera dei deputati.

Quattrocento deputati, sostengono alcuni. Dimezziamo l’attuale numero dei parlamentari, sostengono altri. Fino ad arrivare alla proposta più radicale di tutte: cento deputati. Meno di così non sarebbe possibile, altrimenti tanto varrebbe abolire la Camera.

Ricordo a me stesso che la proposta di modifica dell’articolo 56 della Costituzione formalizzata dal Centro-Destra, nell’ambito del complessivo progetto di riforma della Costituzione respinto dal Corpo elettorale nel referendum del 25-26 giugno 2006, quantificava il numero dei deputati in 518. E, sempre secondo quella proposta, ben 18 deputati sarebbero stati eletti nella Circoscrizione estero. Allora l’estero andava di moda, perché si era freschi della riforma costituzionale di cui è stato ispiratore l’on. Tremaglia (legge costituzionale 23 gennaio 2001, n. 1).

Ricordo sempre a me stesso che nelle disposizioni transitorie (art. 53 del testo) del progetto di riforma costituzionale del Centro-Destra si prevedeva che la riduzione del numero dei deputati avrebbe avuto effetto, non la prima legislatura successiva alla entrata in vigore della nuova legge costituzionale, ma la legislatura ancora seguente. Il che significa che non è poi tanto vero che il Centro-Destra avesse dimostrato grande audacia nell’affrontare la questione!

Fa comunque impressione che, nel giro di tre anni, dalla stessa parte politica sia stato possibile passare da una necessità stimata di 518 deputati ad una richiesta secca di cento. Condita dalla immancabile storiella dei capponi, o tacchini, che non vogliono festeggiare il Natale, e consimili facezie.

In un mondo ideale, in cui la politica fosse una cosa seria, si partirebbe affrontando prima il problema di individuare i migliori meccanismi possibili di selezione della rappresentanza parlamentare e soltanto allora, come conseguenza, si arriverebbe a quantificare la composizione della massima Assemblea rappresentativa del Paese. In altre parole, il numero dei deputati dipende dalla legge elettorale che si ha in mente.

In Italia abbiamo fautori ideologici del maggioritario e fautori ideologici del proporzionale. Si contrappongono e si avversano come le tifoserie di due squadre di calcio tradizionalmente rivali. In realtà, quanti hanno un po’ studiato le leggi elettorali sanno bene che molti sistemi elettorali, tra i più noti sperimentati e consolidati altrove, sono sistemi misti, con caratteristiche in parte maggioritarie, in parte proporzionali.

Sistema misto era pure quello disciplinato dalla legge 4 agosto 1993, n. 277, con cui si è votato in Italia in tre successive elezioni politiche, dalla dodicesima alla quattordicesima legislatura della Camera, cioè dal 1994 al 2001.

La logica della democrazia rappresentativa è che ci sia uno stretto legame tra eletti e realtà territoriale di riferimento. Il modo migliore per garantire che tutte le diverse realtà territoriali della Repubblica abbiano rappresentanza parlamentare è quello di istituire collegi uninominali.

Come ulteriore considerazione non trascurabile, si tenga conto che l’istituzione dei collegi uninominali faciliterebbe una crescita effettiva della cultura democratica, perché si renderebbe possibile far precedere le elezioni in ciascun collegio da un turno obbligatorio di primarie, disciplinato per legge, realmente aperto alla partecipazione di candidati indipendenti. Chiarisco che il turno obbligatorio di primarie non è esattamente la stessa cosa del sistema elettorale del doppio turno di collegio, sul modello francese.

Da noi si potrebbe stabilire questa semplice regola: concorrono all’elezione per l’aggiudicazione del seggio del collegio i due candidati risultati più votati nel turno di primarie. Qualora più di due candidati ottenessero una cifra elettorale pari o superiore al dodici per cento del totale dei voti validi espressi nel turno di primarie, concorrerebbero all’elezione per il seggio tutti i candidati che avessero tale requisito di consenso.

La questione che ora più interessa è che il numero complessivo dei collegi uninominali da istituire non è una variabile indipendente, ma va quantificato in relazione al numero di abitanti che, in media, si vuole corrisponda a ciascun collegio. La legge n. 277/1993 prevedeva 475 seggi collegi uninominali. Come sappiamo, l’Italia ha una popolazione di sessanta milioni di abitanti, secondo le stime più aggiornate.

Di conseguenza se, per esempio, si prevedono 480 collegi, significa che a ciascuno corrisponderebbero in media 125.000 abitanti. Tuttavia, una volta stabilito l’obiettivo di una significativa riduzione dei deputati, considererei ottimale la soluzione di 330 collegi: né troppo piccoli, né troppo grandi, corrispondenti in media a circa 181.000 abitanti.

I collegi uninominali realizzano il sistema maggioritario: chi vince prende tutto. Il che è un potente stimolo a costituire coalizioni politiche. Però, in linea teorica, se in un dato momento storico un orientamento politico risultasse prevalente in modo uniforme in tutto il Paese, potrebbe succedere di eleggere una Camera monocolore, cioè espressione di quell’unico schieramento politico che, magari di stretta misura, vincerebbe in tutti i collegi.

Poiché non può esistere un Parlamento senza libera discussione, senza critica nei confronti delle iniziative proposte dal Governo, cioè senza deputati di opposizione, bisogna studiare rimedi per evitare l’ipotesi, anche soltanto teorica, di una Camera monocolore.

Questo spiega perché è raccomandabile una legge elettorale che preveda un sistema misto. Proprio allo scopo di realizzare il fine di garantire il pluralismo politico nella composizione della Camera dei deputati, è opportuno prevedere che un certo numero di deputati siano eletti in ragione proporzionale ai voti ottenuti da liste concorrenti in circoscrizioni territoriali di dimensioni sovraregionali o regionali.

Dimensioni sovraregionali con riferimento a Regioni con pochi abitanti, come ad esempio il Molise. Dimensioni regionali, con riferimento a Regioni molto popolose, come la Lombardia, ma anche la Campania, il Lazio, la Sicilia, il Veneto, il Piemonte, l’Emilia-Romagna, la Puglia. Secondo me, il numero delle circoscrizioni non dovrebbe essere inferiore ad otto né superiore a tredici.

In altre parole, bisogna garantire che i partiti che hanno un effettivo radicamento nell’intero Paese, o in alcune sue zone, ottengano rappresentanza parlamentare. Sto cercando di argomentare l’esigenza di quel “diritto di tribuna”, che in passato altri hanno inteso in modo molto meno serio.

L’attribuzione di una quota limitata di seggi con metodo proporzionale non costituisce di per sé un attentato alla possibilità che si costituisca una affidabile maggioranza parlamentare. Infatti, in ogni circoscrizione verrebbe “fotografata” la realtà dei rapporti di forza fra i partiti, e le liste più votate otterrebbero più seggi.

Non dovrebbe essere previsto alcun meccanismo di “scorporo” del voto espresso nei collegi, in modo da non ripetere gli inconvenienti riscontrati quando era vigente la precedente legge elettorale (4 agosto 1993, n. 277, legata al nome del ministro Mattarella).

Il voto per una lista circoscrizionale si esprimerebbe contestualmente a quello per un candidato nel collegio uninominale, ma su una distinta scheda di votazione. A tal fine gli elettori avrebbero a disposizione due schede.

Molti considerano “diavolerie” le soglie di sbarramento, forse ignorando che sono previste dalle leggi elettorali di molti Stati europei, che siamo soliti considerare civili e democratici. C’è una esigenza reale, che è difficile disconoscere: proprio quanti hanno a cuore la Forma di governo parlamentare dovrebbero tanto più preoccuparsi che funzioni in modo efficiente, quindi dovrebbero preoccuparsi di razionalizzare il sistema parlamentare, ponendo argini alla frammentazione della rappresentanza.

Sarebbero possibili altre soluzioni tecniche per ottenere il medesimo risultato: ad esempio, si possono prevedere collegi plurinominali piccoli, in cui cioè si eleggono pochi deputati (da tre a sette): l’effetto è quello di escludere dalla rappresentanza tutte le liste con un consenso inferiore al 10 / 15 per cento. Per questa via si determina uno sbarramento occulto molto più alto di quello normalmente previsto quando sono fissate soglie dichiarate. Per quanto mi riguarda, considererei ottimale una soglia di sbarramento non nazionale, ma circoscrizionale, in modo da non escludere i partiti forti e radicati in specifiche realtà territoriali.

Si tratterebbe di fissare la regola che in ciascuna circoscrizione sono escluse dalla rappresentanza le liste che non raggiungono almeno la percentuale del cinque per cento dei voti validi espressi nella circoscrizione medesima.

Quale rapporto numerico stabilire fra i deputati eletti con sistema maggioritario nei collegi uninominali ed i deputati eletti con sistema proporzionale sulla base di liste concorrenti in circoscrizioni territoriali? Secondo me, i deputati eletti con sistema maggioritario dovrebbero essere almeno il settanta per cento del totale, in modo da assecondare l’affermazione, anche in seggi parlamentari, dell’indirizzo politico che raccoglie più voti nel Paese.

Il numero di deputati da eleggere nella circoscrizione Estero potrebbe essere ridotto ad otto. Residuerebbero centotrentadue deputati da eleggere appunto con sistema proporzionale. Questo ragionamento mi porta a quantificare i deputati della Camera in quattrocentosettanta (330 + 8 + 132). Verrebbero così eliminati centosessanta deputati.

E’ evidente che si possono seguire ragionamenti diversi, ma ciò che importa è che una scelta così rilevante qual è quella di una modifica della Costituzione tendente a ripensare la struttura del Parlamento sia prima ben ponderata, sapendo perfettamente in anticipo dove si vuole andare a parare.

Per quanto riguarda il Senato della Repubblica, sembra prevalere largamente l’orientamento di trasformarlo in una Assemblea rappresentativa delle Regioni e del complessivo sistema delle autonomie locali. Anche perché si tratterebbe di superare l’attuale modello del bicameralismo perfetto, attribuendo al Senato potestà legislativa nei limiti stabiliti dalla Costituzione e non più potestà legislativa generale.

In un ordinamento siffatto non ci sarebbe bisogno di un’ulteriore camera elettiva (cioè di senatori eletti, così come vengono eletti i deputati). Infatti, ad esempio, il Bundesrat in Germania è costituito dai delegati dei Länder, cioè delle regioni; oltre tutto i delegati di ogni Land non votano ciascuno come gli pare, ma esprimono un unico orientamento conforme all’indirizzo politico di chi, nel dato momento, governa il Land.

Si potrebbe prevedere che le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano esprimano ciascuna tre senatori come minimo, più un ulteriore numero variabile di senatori in proporzione alla popolazione legale residente, quantificato in un senatore ogni milione di abitanti, o frazione superiore a seicentomila.

L’elezione dei senatori spetterebbe al Consiglio regionale, o della Provincia automa, entro sessanta giorni successivi alla seduta di insediamento del Consiglio medesimo dopo le ultime consultazioni elettorali per il suo rinnovo.

Dal mio punto di vista, che è quello di un genuino pattriottismo costituzionale, la riforma che ho cercato di illustrare sarebbe fin troppo ardita. Temo che, come al solito, ci scontreremo con massimalismi verbali (del tipo: cento deputati in tutto), che poi fanno il gioco dei vecchi politicanti fradici, maestri nell’arte di lasciare le cose come stanno, per conservare l’amata poltrona. (Terza Repubblica)

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