Gli elettori italiani residenti all’estero saranno chiamati ad esprimere il voto referendario del prossimo 21 giugno per posta, con la consueta procedura già in essere per le elezioni politiche nazionali. Nei Paesi con i quali l’Italia non ha potuto varare una convenzione in tal senso, gli aventi diritto potranno tornare in Patria, per esprimere il loro parere, col 75% di rimborso sulle spese di viaggio. Tutto bene quindi, ma non è proprio così. Per i Connazionali non iscrivibili all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero), pur se fuori d’Italia per motivi di lavoro o di studio, il diritto di voto per corrispondenza non è previsto e neppure il contributo spese di rientro in Patria per l’esercizio dell’importante decisione referendaria. Però, il meccanismo del quale abbiamo scritto non è operativo per tutte le categorie d’italiani temporaneamente all’estero. Infatti, potranno votare per corrispondenza le nostre forze armate impegnate in missioni di pace internazionale, i pubblici dipendenti per motivi di servizio e i docenti universitari, anche se associati, purché la loro permanenza all’estero sia prevista per almeno sei mesi e che, alla data del referendum, siano oltre confine da almeno tre mesi.
Tutti gli altri potenziali elettori (che sono centinaia), come abbiamo scritto, per votare dovranno essere in Italia nel comune di residenza ed a loro spese. Non ci sono Santi. Oltre a chi è temporaneamente all’estero per impegni di lavoro e studio a breve termine, non potranno partecipare direttamente ai referendum gli operatori italiani del mare e dell’aria fuori sede. Per tutta questa fitta umanità, l’importante diritto/dovere è precluso per la mancanza di una normativa che lo consente espressamente. Nel ventunesimo secolo, era dell’informatica, ci sembra assurdo non aver varato il voto per via telematica. Sarebbe bastato pesarci in tempo. Ma, come sempre, da noi si ritiene che pensare spetti ad altri. Gli effetti sono, anacronisticamente, palesi.
