di Andrea Scanzi
Questo spazio si caratterizzerà per mancanza di un tema di fondo, come il Pd. Seguirà le ultime settimane di campagna elettorale, commenterà i risultati elettorali delle europee. Parlerà di candidati, scontri televisivi, abbacinanti contese. E parlerà anche – come oggi – di refrattarietà al dissenso interno, branca della politica su cui da sempre la sinistra eccelle.Suonano rivelatrici le parole di Francesco Guccini sabato scorso a La Stampa: “Sia chiaro, a me gli intellettuali che vanno con Di Pietro non stanno bene”, ha esalato il Maestrone. “Io sto con Franceschini, io non cambio idea: a me pare un duro, uno che ha le idee chiare”.
Nulla di nuovo, a parte forse la categorizzazione di Franceschini a “duro”: vero, ma solo se della durezza si ha un concetto oltremodo elastico. E’ naturale che Guccini, peraltro amico del leader (parola grossa) Pd, voti riformista. Quasi tutti i cantautori erano ieri veltroniani (salvo poi dissociarsi tardivamente da se stessi) e oggi franceschiniani. Lo stesso Guccini è (sempre stato) un notevole linguista e un mirabile bevitore. Quello del Guccini rivoluzionario è (sempre stato) un ritornello buono per gli incendiari in attesa di divenire pompieri, un equivoco dovuto a un paio di rime azzeccate (”la bomba proletaria e illuminava l’aria la fiaccola dell’anarchia”, cose così).
Colpisce casomai questo ulteriore monito al voto utile, questa ennesima scomunica da sinistra: questo sempiterno voler mostrare al compagno di avercelo più lungo. Lasciamo stare che, nello specifico, Antonio Di Pietro stia ideologicamente alla sinistra come Vittorio Sgarbi alla coerenza. A far specie è questa dottissima chiamata alle armi.
Dopo la batosta elettorale, che aveva reso la sinistra extraparlamentare (almeno nei Settanta era una scelta), Franco Giordano arringò (?) la folla (7 persone) gridando: “Compagni, volete davvero lasciare la sinistra in mano a Di Pietro?”. Bastava rispondergli una cosa tipo: “Basta sia, perfino Scaramacai avrebbe più peso specifico di noi”, ma gli ultimi guevaristi – prima di ritirarsi nelle catacombe – di lì a poco hanno preferito scindersi in altre 34 correnti. Il pueblo sarà anche unido, ma le avanguardie proletarie italiane mica tanto.
Un mese fa, Sergio Staino ha fatto sapere di candidarsi con Sinistra e libertà perché (anche lui) ritiene inaccettabile il voto a Di Pietro e perché (solo lui) è convinto di aiutare il Pd (a cui è iscritto) presentandosi contro il Pd (che comprensibilmente a questo punto medita di cacciarlo).
Il leit motiv è sempre lo stesso: l’avversario non è Berlusconi, verso cui anzi in fondo in fondo si flirta, dacché – Nichi Vendola dixit – l’Uomo di Hardcore è un modello, un esempio in qualche modo da seguire, un avversario da non demonizzare. Il vero avversario è Di Pietro, che è giustizialista, populista e non sa neanche parlare.
Tutte cose moderatamente vere, beninteso. Soprattutto l’ultima. Domenica, accolto al Salone del Libro come neanche Andreas Seppi a Caldaro dopo aver vinto l’epico challenger di Bergamo, Di Pietro ha detto una cosa tipo: “Spero che le due sinistre si ritrovano (sic) sulla via di Damasco”. E qui viene da ridere. Però Di Pietro, tra un congiuntivo disatteso e l’altro, ha anche detto: “In assenza della sinistra ci sto io”. E qui da ridere viene un po’ meno.
Il punto, qui, non è difendere o non difendere Di Pietro. Tutti ne conoscono l’indole sbirrica. Non pochi trasecolano ascoltandolo su immigrazione, referendum e federalismo fiscale. Molti (compreso chi scrive) non gli perdoneranno mai il voto colpevole sulla mattanza alla scuola Diaz. E chiunque, incluso chi lo vota, non può che condividere Alessandro Robecchi sull’ultimo numero di Micromega: “Molto si discuterà sul successo elettorale dell’Italia dei Valori, ma si può già dire che i suoi elettori si dividono in due categorie: quelli che votano Di Pietro per disperazione, e quelli che votano Di Pietro per sconforto. (..) Sono due elettorati molto diversi tra loro, che probabilmente pagherebbero per non votare per Di Pietro e per poter scegliere qualche alternativa politica all’esistente. E che finiscono – infatti – per votare Di Pietro per un motivo semplicissimo: altrimenti gli toccherebbe votare Pd. E a tutto c’è un limite”.
Precisissimo, ma torniamo alla scomunica. All’anatema: Di Pietro non si può votare. E’ storia vecchia come il mondo. Succede sempre così.
Esempio uno di non allineamento sgradito: Giorgio Gaber. E’ il 7 gennaio 1998, il Signor G ha debuttato quattro giorni prima con il suo Recital a Lucca. La prima pagina de L’Unità (L’Unità: non Libero) pubblica un editoriale in prima pagina. Titolo: “Gaber, il triste menestrello di un dittatore”. L’autore è il latinista Luca Canali, che ammette candidamente di non aver visto lo spettacolo di cui parla. Ciò nonostante, per sentito dire, scrive che quella di Gaber “è poltiglia di filosofia spicciola involgarita”, che il Signor G non deve sentirsi autorizzato “a sentirsi fuori dalla cerchia dei cretini” e che la sua è ormai la parabola declinante di un menestrello dei dittatori.
Cosa c’era dietro questo astio? Il redde rationem di vent’anni di militanza in direzione ostinata e contraria (e la “inaccettabile” relazione con Ombretta Colli).
E’ chiaro (lo scrivo per Filippo Facci, mio editorialista di riferimento) che Gaber con Di Pietro non c’entra niente. Ovvio. Epperò è lo stesso il “ruolo”, “l’incasellamento” a uso e consumo della intellighenzia: “Non è fedele alla linea, e ciò nonostante si professa vicino a noi. Inaccettabile”.
Esempio due di non allineamento sgradito: Beppe Grillo. C’è appena stato il primo V-Day, da tutti sottovalutato. Centinaia di migliaia di persone in piazza. Un’agorà, come noto, sempre più dipietrista. Qualcuno scrive, anzi tuona: “Non inganni lo slogan ‘né di destra né di sinistra’. Si tratta infatti di uno slogan della peggiore Destra, quella populista, demagogica, qualunquista che cerca un capo in grado de-responsalizzarla. Il più vivo desiderio delle masse, cioè dell’individuo ridotto a folla e a massa, è di essere de-responsabilizzato (..). L’antipolitica è sempre servita a questo: piazza pulita per il futuro dittatore”.
Chi è che – si noti la coincidenza – dà a Grillo (come a Gaber, come a Di Pietro) la qualifica di qualunquista populista in odor di dittatura? Chi è che reputa i grillisti dei minus habens desiderosi di avere per guida un guru bravissimo a de-responsabilizzarli? Vittorio Feltri? Belpietro? Pio Pompa? No, Eugenio Scalfari.
Giunti in prossimità dell’appuntamento europeo, la realtà non è mutata. Si dice che dagli errori si impara, e infatti la sinistra non impara. Raschia il fondo e scava, fin quasi ad arredare il tunnel.
Ciò che terrorizza la sinistra (parola grossa) riformista (parola a caso) non è l’ennesimo plebiscito berlusconiano: è il prevedibile successo di Di Pietro. Contro cui, puntuali, si levano le scimitarre dei soloni perennemente à la page. Lo aveva fatto anche Don Veltroni nella rutilante cavalcata del 2008, con risultati invidiabili: ammazzata la sinistra radicale, trionfalmente resuscitato il centrodestra. Vamos. Giambattista Vico diceva che la storia tende a ripetersi, ma di fronte alla nomenklatura italiana avrebbe casomai scritto che la storia è più che altro pallosa.
E’ uno scenario esaltante. Bertinotti teme che “così facendo si consegni la sinistra al giustizialismo”, lasciando intendere che il suo proletarismo salottiero sia da rimpiangere. D’Alema, con insondabile acume, ammonisce che “la crisi non è della sinistra italiana ma della sinistra europea, se si guarda il resto del mondo non è così” (e Bertinotti, qui e solo qui, annuisce pensando a Chavez). Franceschini, il “duro” Franceschini, usa parole forti (”Perdindirindina”). E Sergio Cofferati, quello che sette anni fa avrebbe vinto le elezioni con le mani in tasca, torna a far politica dopo averla abbandonata per adempienze paterne. Davvero uno scenario esaltante.
Quasi vien da capirli, quelli che domenica a Torino hanno applaudito Di Pietro quando ha gridato: “E basta con questa sinistra acculturata, sofisticata, prezzemolata”. Anche se verosimilmente voleva dire prezzolata.(Micromega)