I colori di Montefiore. Testimonianze archeologiche dagli scavi nella Rocca

Il 22 maggio, a partire dalle ore 17, prima dell’inaugurazione della mostra, saranno presentati a Montefiore i restauri degli affreschi quattrocenteschi dell’Oratorio della Beata Vergine, effettuati da Laboratorio di Restauro srl di Ravenna, e il volume “La rocca e il sigillo ritrovato. Ultimi restauri e scoperte a Montefiore” a cura di Cetty Muscolino e Valter Piazza, con contributi di archeologi, storici dell’arte e restauratori.

Decine di boccali, coppe e bacili decorati con ritratti e cartigli, lettere gotiche e festoni, motivi geometrici e simbolici, dallo stemma degli Angiò al monogramma di San Bernardino. La quantità di maioliche antiche recuperate negli scavi del castello è impressionante. I colori sono il blu, il giallo, l’ocra, il verde ramina e il bruno manganese, gli stessi del paesaggio che si ammira dalla fortezza. Sono loro gli ispiratori della mostra “I colori di Montefiore”, allestita nella Rocca malatestiana fino al 22 novembre.
L’esposizione illustra gli scavi archeologici condotti in ampie zone del piano di corte e mostra una parte dei reperti recuperati. Oltre ad individuare strutture più antiche rispetto alla costruzione del castello -edificato dai Malatesta tra il 1337 e il 1347-, gli scavi hanno portato in luce l’antico tetto della rocca, con i coppi e gli scarichi originari, una cisterna-pozzo per il recupero dell’acqua piovana e una serie di fosse da butto in muratura.
La costruzione di queste fosse (l’ultima è stata usata fino all’abbandono del castello, nel ‘600, ed era ancora semivuota) rivela attenzione per gli aspetti igienici oltre che funzionali. Le fosse erano usate in sequenza e quando una era piena la si chiudeva con una lastra, saldata per evitare cattivi odori. Gli scarichi dei materiali dentro le fosse hanno prodotto una successione di strati che ha permesso di ricostruire tre secoli di vita della rocca e le abitudini dei suoi abitanti, oltre al recupero di centinaia di maioliche. I pezzi rinvenuti consentono di datare perfettamente le fasi d’uso della rocca e illustrano i collegamenti commerciali ed economici dell’epoca.
Questa mostra espone i primi 12 reperti restaurati che costituiscono una campionatura della produzione ceramica tra la seconda metà del XIV e gli inizi del XVII secolo. Altri 40 pezzi saranno disponibili al termine del cantiere-scuola di restauro che inizierà il 18 maggio, coordinato dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna.
Ci sono pezzi in maiolica arcaica, datati dalla seconda metà del XIV secolo e tipici della prima epoca malatestiana, come i due boccali decorati, uno con un uomo barbuto e l’altro con lo stemma dei Malatesta, uno scudo con bande trasversali a scacchiera, sormontato da una G con terminazioni a testa di drago, attribuibile a Galeotto.
Il XV secolo è rappresentato da sei pezzi di notevole fattura. Sono presenti in pratica tutte le fasi delle produzioni di maiolica, dalle zaffere a rilievo alle maioliche in stile “gotico-floreale” con cartigli e motivi simbolici. I rapporti con i Montefeltro sono attestati da un piatto da esposizione con l’aquila coronata, stemma della famiglia, mentre su un grande boccale spiccano due mani che si stringono accompagnate dalla scritta FIDES, motivo tipico della simbologia amorosa rinascimentale.
Il XVI secolo presenta maioliche in stile “alla porcellana” e in “graffita rinascimentale”, fino ai più tardi “compendiari” di produzione faentina che datano le ultime fasi d’uso della Rocca.
La maggior parte dei reperti sono riconducibili a produzioni romagnole mentre sono piuttosto rari i pezzi dalle Marche e dal ferrarese. I vetri invece sono per lo più di produzione veneziana.
La mostra, promossa dal Comune di Montefiore Conca, è organizzata dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna e da Simone Biondi (Tecne srl di Riccione), con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini e con la collaborazione della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Ravenna.

A meno di un anno dalla riapertura, dopo lunghi restauri, la Rocca Malatestiana di Montefiore Conca, nell'entroterra riminese, ospita la sua prima mostra dal titolo “I colori di Montefiore. Testimonianze archeologiche dagli scavi nella Rocca”, dedicata agli esiti delle indagini archeologiche che si sono svolte dal 2006 al 2008. Sette vetrine all'ultimo piano espongono 12 reperti ceramici di notevole fattura, recentemente restaurati e corredati da scheda tecnica; l'allestimento consente anche la visita dell'area di scavo vera e propria, lasciata a vista per il pubblico. Dal 18 maggio al 23 giugno, inoltre, Montefiore sarà sede di un cantiere-scuola di restauro ceramico al termine del quale i 12 corsisti consegneranno altri 40 reperti disponibili per l'esposizione.
Pur inserendosi nell'ormai consolidato filone degli studi sulla produzione ceramica di età malatestiana, questa esposizione presenta due elementi di novità. Il primo è la possibilità di trasformare la mostra da temporanea in permanente; il secondo è la sua ambientazione nei locali del Castello, da poco riaperti al pubblico e il cui recente restauro è stato occasione dei ritrovamenti che la mostra stessa documenta. La lettura dei dati di scavo e l’analisi dei reperti (ad oggi sono oltre 300 le ceramiche, i metalli e i vetri già inventariati), stanno consentendo di ricostruire un pezzo di storia di Montefiore mai prima d’ora indagato e solo sommariamente delineato dalle fonti scritte. Le ceramiche recuperate rappresentano frammenti di una vita quotidiana che si dipana sui tre secoli di occupazione della rocca da parte dei Malatesta, dagli inizi del ‘300 alla fine del ‘500.
Uno dei reperti che sarà oggetto di restauro durante il canitere-scuola di Montefiore. La simbologia della donna nuda legata ad un albero è al vaglio degli studiosiL'aver ritrovato questi reperti sta consentendo di ricomporre uno spaccato di vita fatto di attività artigiane, scambi culturali, abitudini alimentari e di banchetti, politica, dame e guerrieri.
Il 22 maggio, data d'inaugurazione della mostra, sarà l'occasione per presentare anche i restauri degli affreschi quattrocenteschi nell’Oratorio della Beata Vergine, effettuati da Laboratorio di Restauro di Ravenna, e il volume “La rocca e il sigillo ritrovato. Ultimi restauri e scoperte a Montefiore” a cura di Cetty Muscolino e Valter Piazza, funzionari della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Ravenna, con interventi di archeologi, storici dell’arte e restauratori.

MONTEFIORE: LA MAIOLICA ATTRAVERSO I SECOLI
Il nucleo più consistente di materiale ritrovato negli scavi è riferibile alle ceramiche da mensa prodotte dalla fine del ‘300 alla seconda metà del '500. Abbiamo anche rinvenimenti di minor consistenza, relativi alle ultime fasi d’ uso della Rocca e databili al corso del ‘600, ma si tratta di reperti quasi esclusivamente connessi all’utilizzo occasionale dei locali.
Di particolare interesse è la differenza quantitativa fra i tipi collocabili tra la metà del Quattrocento e il secolo successivo, largamente prevalenti, rispetto alle produzioni arcaiche trecentesche. Questo dato trova un quadro di riferimento specifico in quelle che sono le aree di produzione delle varie tipologie ceramiche attestate: se le maioliche più antiche sono perlopiù assimilabili alle produzioni locali, quelle successive si caratterizzano per un aumento degli oggetti d’importazione dall’Alta Marca, dall’area faentina o dal territorio ferrarese, con prolungamenti nel corso del Seicento al Veneto. Si tratta di elementi che trovano una prima spiegazione in quella che è la logistica stessa della Rocca di Montefiore, costruita a difesa dei territori Malatestiani confinanti con il Montefeltro e a breve distanza dalla costa, e quindi, nei decenni di passaggio fra l’età medievale e il primo Rinascimento, pienamente coinvolta in quelli che erano i traffici economici e culturali tra i principali centri delle Marche settentrionali e del Veneto.

Fine del Trecento
Fra le produzioni più antiche, numerosi frammenti appartengono alle maioliche arcaiche. Sono attestate quasi esclusivamente forme chiuse, decorate con motivi geometrici, ritratti, ornati epigrafici, fitomorfi, zoomorfi o araldici, in verde ramina e bruno manganese su fondo bianco smaltato. Queste ceramiche sono in prevalenza produzioni romagnole e riminesi legate alla prima epoca malatestiana, cui si affianca anche qualche esemplare di fattura marchigiana.
Oltre a queste ceramiche troviamo anche produzioni molto meno costose e realizzate in un gran numero di pezzi, le cosiddette ceramiche comuni. Si tratta di forme funzionali la cui struttura era dettata esclusivamente dall’esigenze d’uso. Queste ceramiche erano prodotte in argilla depurata quando, ad esempio, dovevano servire come contenitori per l’acqua o il vino, o in un impasto più rozzo, ricco di inclusi che lo rendevano quasi refrattario al calore, per pentole, tegami, coperchi, teglie ed olle.
Contemporaneamente veniva prodotto anche un vasellame in argilla in un impasto di colore rosso, le cosiddette “ceramiche invetriate”, cioè rivestite da una vetrina trasparente o verdastra, a base di ossidi di piombo, che proteggeva l’interno dei recipienti per le ceramiche da fuoco o poteva ricoprirli anche interamente nel caso delle ceramiche da mensa. Fra le ceramiche ritrovate durante gli scavi sono attestate pentole, tegami, coperchi, con produzioni che vanno dalla fine del XIV secolo al XVII. Numerosi anche i micro vasetti recuperati, cioè piccoli contenitori che non superano di solito i 6-7 cm di altezza, utilizzati normalmente in cucina come portaspezie.
Fra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento si datano anche alcune fra le prime produzioni di ceramiche ingobbiate, ritrovate nei depositi stratigrafici interni alle discariche insieme alle maioliche arcaiche e ai boccali in “zaffera a rilievo”. La ceramica ingobbiata era ottenuta immergendo in una terra bianca diluita (ingobbio) I'oggetto di argilla, che veniva quindi ricoperto con la vetrina piombifera e infornato per la seconda cottura (ceramiche ingobbiate monocrome) oppure decorato (ceramiche ingobbiate dipinte). In questo caso sul biscotto (cioè sull’oggetto cotto una sola volta, sul quale era poi realizzata la decorazione e quindi ricotto, da cui il termine biscotto) veniva realizzato un disegno in bicromia verde rame e giallo ferraccia, costituito, nel caso delle ceramiche di Montefiore, da decori geometrico-vegetali con filetti a croce centrali e campiture riempiete a graticcio. Sono oggetti che, al pari delle ceramiche comuni o di quelle invetriate, troveranno un’ ampia diffusione soprattutto nel corso del Quattrocento e del Cinquecento, grazie in particolare alle caratteristiche della tecnica decorativa, che si prestava molto facilmente ad adattarsi a possibili varianti esecutive.
Al gruppo delle ceramiche ingobbiate appartengono anche le cosiddette ceramiche graffite policrome. Attestate da pochi frammenti datati a partire dall’ultimo ventennio del Trecento, si distinguevano dalle forme precedenti per l’uso di una punta acuminata che il ceramista usava dopo l’ingobbiatura per incidere il rivestimento, seguendo un disegno o un’ispirazione. Il pezzo passava così alla prima cottura, quindi veniva decorato con colori a base di ossidi metalli e ricoperto dalla vetrina piombifera ed Infine rinfornato per la seconda definitiva cottura.

Il Quattrocento
Agli inizi del Quattrocento, contemporaneamente alla decadenza della produzione di maioliche arcaiche, fanno la loro comparsa, nei servizi da tavola, le ceramiche in “zaffera a rilievo”, nome che deriva dalla parola araba “al-safra” con cui si indicava il colore blu di cobalto. Oggi invece con il termine zaffera si fa riferimento a uno specifico tipo di decorazione, caratteristica dell’età medievale, contraddistinta dall’uso di un colore blu molto scuro e denso dato in associazione al bruno manganese. I reperti di Montefiore che appartengono a questa famiglia sono esclusivamente forme chiuse, come i boccali di produzione romagnola contraddistinti da motivi epigrafici (ricorrenti la “N” o la “M”gotiche) all’interno di un medaglione centrale formato da un doppio serto di bacche.
Solo dalla metà del XV secolo si assisterà ad una vera e propria “rivoluzione estetica” sulle tavole, con l’introduzione della “famiglia gotico-floreale”. Si tratta di produzioni le cui decorazioni, oltre ad assumere i temi delle ceramiche italo-moresche, impiegavano, riadattandoli, elementi della cultura tardo gotica e della miniatura di fine Trecento. La qualità dello smalto e la brillantezza dei colori diventano un tratto distintivo di queste produzioni: la tavolozza del ceramista “si fa calda” con l’uso dell’arancio, dei viola, dei verdi, del blu o dell’azzurro turchino. I decori cambiano e si arricchiscono grazie alla diffusione dei nuovi canoni estetici rinascimentali. Si assiste ad un moltiplicarsi di fiori, animali, stemmi, simboli religiosi (come il trigramma “IHS” di san Bernardino da Siena o la croce terminante a monticelli), contornati da palmette a ventaglio, aureole di fiammelle o monticelli in alternanza cromatica.
Fra le ceramiche rinvenute a Montefiore non mancano anche alcune ceramiche appartenenti al tipo “a tavolozza fredda”, diversificato dal precedente dall’utilizzo di colori come il blu-grigio zaffera, il giallo cedrino e il bruno manganese.

Fine del Quattrocento
Boccale in maiolica policroma raffigurante due mani che si stringono accompagnate dalla scritta “FIDES”. Fine XV-inizi XVI secolo. Il motivo delle mani che si stringono fa parte della simbologia amorosa rinascimentale quale augurio d’amore e fedeltà, confermato dalla scritta FidesAlla fine del XV secolo sono attribuibili un numero discreto, anche se non abbondante, di frammenti ceramici che hanno in comune decorazioni molto ricche nell’uso dei colori e delle composizioni (i c.d. “tipi rinascimentali”). Accanto ai motivi già tipici del “gotico-floreale”, come gli archetti e i cartigli, queste ceramiche propongono nuove decorazioni di carattere simbolico o puramente decorativo, come il grande boccale ornato da un medaglione centrale con due mani che si stringono accompagnate dalla scritta FIDES, quale augurio d’amore e fedeltà secondo la simbologia amorosa rinascimentale.
Un ultimo gruppo di materiali ritrovati all’interno delle discariche della Rocca, e prodotti a partire dalla seconda metà del Quattrocento, sono le ceramiche ingobbiate graffite policrome rinascimentali. Si tratta di oggetti realizzati nelle stesse officine delle ceramiche ingobbiate comuni, dalle quali si differenziavano quasi esclusivamente per i soggetti rappresentati.
Molto diffuse sono le ciotole con busti di profilo, animali (lepri, uccelli) o stemmi centrali associati a siepi o elementi geometrico-vegetali lungo il cavetto interno, in corrispondenza dell’orlo.

Il Cinquecento e il Seicento
La ceramica alla porcellana. Sono ceramiche ad imitazione delle porcellane cinesi Ming (1368-1644) prodotte a partire dalla fine del Quattrocento. Si tratta di ceramiche di largo consumo, realizzate a costi contenuti e di conseguenza più facilmente commerciabili rispetto, ad esempio, ai contemporanei esemplari istoriati dello “stile bello”, che, oltre a non avere destinazione d’uso se non quella di oggetto da esposizione o d’arredo, rimanevano un articolo riservato a pochissime persone. Fra le ceramiche alla porcellana di Montefiore sono stare recuperate numerose scodelle, coppette e piatti decorati da un medaglione centrale con composizioni vegetali, animali (anatre, colibrì ecc.) o paesaggi stilizzati con conchiglie, delimitati sui bordi o sulla tesa da motivi a tralci o a ciuffetti di foglie.
Fra i “tipi rinascimentali” attestati a Montefiore, le produzioni più tardive di fine Cinquecento-inizi Seicento sono riferibili alle ceramiche c.d. berrettine e alla maioliche in stile compendiario. Delle prime fanno parte alcune ciotole con decorazioni policrome a festoni, frutta e fiori realizzate sullo smalto azzurrino di fondo, e diversi frammenti di piatti caratterizzati da uno smalto blu più o meno intenso, con pennellate di bianco e con soggetto “a paesi”, abitualmente assegnati alle produzioni veneziane ma ben testimoniati anche tra i reperti pesaresi della metà del Seicento.
Per quanto riguarda le maioliche in stile compendiario è stato ritrovato solo qualche fondino di coppetta. Il termine, utilizzato dagli archeologi per indicare un tipo di pittura romana sviluppatasi verso la fine del I sec. d.C. e contraddistinta dall’uso di pennellate rapide, venne ripreso dal ceramologo faentino Gaetano Ballardini nel secolo scorso, per riferirsi ad un tipo di produzione ceramica caratterizzato dall’uso di tratti veloci ed essenziali di giallo, arancio o turchino sul fondo bianco smaltato dell’oggetto. Caratteristici di questa produzione sono gli amorini o gli stemmi di famiglia .

GLI SCAVI ARCHEOLOGICI
Sulla base delle fonti scritte, gli storici hanno collocato la costruzione del castello fra agli anni 1337 e 1347. Gli scavi archeologici hanno confermato in linea di massima questi dati, attestando tuttavia un precedente periodo di frequentazione, databile al tardo XIII secolo. La Rocca oggi visibile è però il risultato di trasformazioni avvenute nel suo II e III periodo di vita, costituiti da diverse fasi architettoniche, la più antica delle quali risale alla metà del XIV secolo, mentre la più recente al pieno XV secolo. Il corpo più antico è quello di sud-ovest, formato dalle stanze C e D con gli annessi e il vano scale, mentre le altre sale del piano di corte furono costruite solo successivamente. Questi ambienti al pianterreno erano destinati a diversi utilizzi, principalmente di servizio, mentre gli spazi di abitazione veri e propri, compresi quelli di rappresentanza, erano ai piani superiori. La fase malatestiana più antica è presente in una serie di strutture e ambienti di servizio, la cui costruzione ha comportato l’incisione della roccia di base, con scassi e buche di palo da ponteggio, il cui uso è molto probabilmente da collegare alla costruzione della rocca stessa. La struttura più importante venuta alla luce nella stanza A è la grande cisterna-pozzo per la raccolta dell’acqua, collocata al centro della stanza.
Si tratta di una struttura quadrangolare, scavata in parte nella roccia di base. Le pareti sono rivestite da uno spesso strato di argilla pura con funzione impermeabilizzante; al centro è costruito un pozzo con camicia in mattoni, tenuti volutamente slegati. Tutto lo spazio fra le pareti e il pozzo è riempito da sabbia, con funzione ed effetto filtrante. L’acqua raggiungeva la cisterna attraverso un sistema di canne vuote, interne alle murature, che partivano dal tetto e portavano direttamente l’acqua piovana alla vasca di raccolta, dove veniva filtrata dalla sabbia e quindi raccolta nel pozzo, dove poteva poi essere attinta senza problemi. L’aspetto più interessante di questa fase è dato, però, dalla presenza di gruppi distinti di fosse da butto in muratura (una nel vano A e tre nel vano B), inserite nella roccia di base, costruite praticamente in batteria e rimaste in uso fino alle ultime fasi del castello, agli inizi del ‘600. Sono costruite da semplici strutture a volta a pianta rettangolare, realizzate in mattoni, con una o due caditoie con chiusino a botola.
Queste discariche erano usate in successione e quando una era riempita, la botola veniva chiusa e saldata, in modo che non si spargessero effluvi spiacevoli. Al livello alto, in corrispondenza dell’ambiente maggiore delle fosse, appariva solo un muro con allineamento di stanzette quadrate con porta dotata di soglia, entro le quali era la botola da cui venivano fatti cadere i rifiuti.
Lo scavo di queste discariche ha permesso il recupero di una quantità impressionante di maioliche, alcune già restaurate e la maggior parte in corso di ricomposizione. Sono presenti in pratica tutte le fasi delle produzioni di maiolica: dai tipi arcaici testimoniati da numerosi boccali, alcuni dei quali con lo stemma dei Malatesta con scudo a bande trasversali a scacchiera, alla “zaffera a rilievo”. Dalle coppe e piatti in stile “gotico floreale” o “alla porcellana”, con motivi decorativi o simbolici, come il grande piatto da esposizione dei Montefeltro con l’aquila a testa cornata, alle meno numerose le graffite rinascimentali di produzione ferrarese o le maioliche istoriate rinascimentali cinquecentesche, fino ad arrivare ai compendiari faentini dei primi del ‘600.
Eclatante è stato il restauro del tetto antico -trasformato in terrazza da un innalzamento- che ha portato i nostri tecnici ad effettuare uno scavo archeologico sulla massima sommità della struttura della rocca. Lo svuotamento controllato ha messo in luce i coppi e gli scarichi per l’acqua originari, e ha permesso anche di recuperare, oltre ad altro materiale, molte punte di frecce da balestra delle esercitazioni degli arcieri, evidentemente cadute e lasciate nel terreno del Campo degli Arcieri e dei piani della grillanda, zone da cui era stato preso il terreno del riempimento.
La rocca è strutturata su tre piani: i lavori eseguiti negli anni ’50 del secolo scorso dal Genio Civile, pur ridando alla rocca la sua imponenza, ne avevano completamente falsato le strutture, modificando piani d’uso, quote e pavimenti.
In alcuni punti, come nei locali C e D, il terreno era stato asportato fin quasi alla roccia, mentre nei locali A e B era stato livellato fino alla quota delle nuove soglie della corte interna. I terreni usati per i riempimenti e per rialzare i pavimenti erano quelli ricavati da altri lavori di scasso e fondazione, pieni quindi di frammenti ceramici e di oggetti.
Noi abbiamo eseguito gli svuotamenti dei locali sopra indicati, recuperando i materiali; i lavori di scavo archeologico vero e proprio -esclusi gli svuotamenti- hanno interessato esclusivamente gli ambienti del piano di corte. Alla fine, sono state lasciate in vista e musealizzate le strutture rinvenute all’interno degli ambienti A e B, mentre quelle negli altri ambienti, dopo essere state rilevate, sono state protette, ricoperte e chiuse sotto i nuovi pavimenti.

GLI AFFRESCHI ALL'ULTIMO PIANO DELLA ROCCA
Nell’ampio salone all’ultimo piano della rocca ci sono ampi affreschi risalenti alla seconda metà del Trecento che testimoniano la dignità e spettacolarità che questo luogo doveva avere nei tempi lontani del suo splendore.
Gli affreschi furono realizzati sotto il mandato del Malatesta detto l’Ungaro perché nel 1348 aveva ricevuto un’onorificenza dal re d’Ungheria. Di quello che in origine doveva essere un ciclo di grande respiro rimangono in questa sala trapezoidale, con copertura a volta ogivale, definita nei documenti del Quattrocento “camera dicta vulgariter dell’Imperatore”, ampi brani pittorici sui lati brevi. Sulla parete occidentale, all’interno di un grandioso baldacchino, campeggia la maestosa figura di un uomo armato, probabilmente l’Imperator delle cronache, che reca lo scettro nella mano destra e la spada nella sinistra; la lunetta soprastante è decorata con un’animata battaglia di fanti con armamento leggero. Per l’identificazione del monumentale personaggio sono state avanzate alcune ipotesi: potrebbe essere Tarcone, figlio di Laomedonte re di Troia, cugino di Ettore e di Enea e, sulla base di una leggenda divulgata nella seconda metà del Trecento, presunto capostipite della famiglia; o potrebbe trattarsi di Ettore o di Enea o di Scipione l’Africano che per Sigismondo Pandolfo Malatesta acquisterà un ruolo determinante, come attestano i superbi rilievi quattrocenteschi realizzati nel Tempio di Rimini da Agostino di Duccio.
Sulla parete orientale doveva in origine figurare la fase conclusiva di un combattimento equestre: cavalieri in fuga inseguiti da altri cavalieri.
La decorazione doveva poi proseguire lungo la volta ogivale con una duplice serie di grandi medaglioni quadrilobati (tipo quelli realizzati da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova) entro cui si disponevano a mezzo busto figure di personaggi dell’antichità, individuabili grazie all’iscrizione declaratoria.
Il ciclo pittorico è stato attribuito al bolognese Jacopo Avanzi, pittore forgiatosi sulle esperienze grottesche padovane e collaboratore di Altichiero negli affreschi della Cappella di San Giacomo a Padova realizzati nella seconda metà del Trecento. Gli affreschi della rocca furono realizzati probabilmente nel decennio compreso fra il 1362 e il 1372.

Informazioni Evento:
Promosso da: Comune di Montefiore Conca, Soprintendenza per i Beni Archeologici dell'Emilia-Romagna e Simone Biondi (Tecne srl Riccione), in collaborazione con Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Ravenna e con il sostegno di Fondazione Cassa
Data Inizio:22 maggio 2009
Data Fine: 22 novembre 2009
Costo del biglietto: 3,50 euro
Luogo: Montefiore Conca (RN), Rocca Malatestiana
Orario: tutti i giorni, dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 20
Telefono: 051.223773 – 051.220675 – 051.224402
Sito Web: http://www.archeobologna.beniculturali.it/

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