Da una tenda in abruzzo

Ancora una lettera, ancora una denuncia durissima, dal freddo si passa al caldo e dalla neve al sole, ancora una donna la stessa che già poco tempo fà ha tentato di raccontare come si vive in un paese terremotato dell’ Abruzzo. Si sono fatti dei passi: “Un milione di euro dai risparmi sulla parata del 2 giugno”, durerà 10 minuti in meno, con sorpresa finale, spiacente di rovinare la suspence, riporto «Saranno eliminate alcune coperture delle tribune. Al loro posto sono stati acquistati alcune migliaia di ombrellini tricolori, che potranno essere utilizzate sia per difendersi dal sole che nel caso in cui dovesse piovere, assicurando, nel caso di apertura, anche un bellissima coreografia».
Gli stessi Fori Imperiali, in cui cambiano i personaggi e i colori. Dalla spilletta arcobaleno sul petto di Bertinotti all’ombrello tricolore maggioritario. Lo spettacolo non verrà meno, immutato.

Da una tenda, sono in 31.000 a viverci, aspettando il G8.
Doriana Goracci

ANCORA DALL’INFERNO DELLE TENDOPOLI
Freddo di notte, caldo di giorno, un caldo sfibrante, soprattutto per i
120 sfollati di Colle Sassa, rimasti senza acqua, senza poter bere e
lavarsi per 2 giorni, fino a quando non hanno protestato e minacciato
querele.
Freddo di notte, caldo di giorno. Nelle cuccette e nelle tende alla
mattina non si può più stare: manca l’aria e il termometro sale ad oltre
30°. Il microclima, il sovraffollamento, le scarse condizioni igieniche
e i tardivi controlli sugli alimenti e la gestione della cucina nei
campi favoriscono la diffusione di malattie infettive e parassitarie. 50
casi di gastroenterite nel solo campo di piazza d’armi in un solo giorno
e i malati vengono tenuti in isolamento nelle tende. Un caso accertato
di tubercolosi nel campo di Pizzoli, ma le prime notizie apparse su
televideo parlavano di 5 malati di tubercolosi all’Aquila. Di una cosa
sicuramente siamo tutti malati, la disinformazione.
La protezione civile promette condizionatori e doppi teli per
proteggersi dal sole, ma intanto si aspettano ancora lavabi in
prossimità dei cessi chimici e i medici asseriscono che: “per prendere
una diarrea basta aprire la porta del bagno chimico e poi non lavarsi le
mani”. Sapete cosa ha risposto la protezione civile ad uno sfollato
disoccupato che chiedeva teli frangisole e frigoriferi per il campo?
“Vedi di farteli regalare da qualcuno, noi non ne abbiamo!”
Fa caldo, troppo caldo nelle tende, i bambini, gli anziani, i malati
costretti all’isolamento non riusciranno a superare l’estate e
l’ospedale da campo non è in grado di fronteggiare l’emergenza.
Nonostante i climatizzatori, nelle tende dell’ospedale la temperatura
supera i 30° e i ricoverati, di cui una trentina di anziani allettati
nelle tende di medicina interna, aspettano i rifornimenti di integratori
salini contro il caldo. Per andare al bagno, chi può alzarsi dal letto
deve uscire dalla tenda per raggiungere i cessi chimici e durante il
percorso rischia di inciampare in un’altra minaccia, le vipere. Ma non è
tutto: dal 20 maggio, per una settimana, sono sospesi gli esami per i
pazienti ambulatoriali e ricoverati per liberare le aree dove verrà
montato l’ospedale da campo del G8.
Questo maledetto G8, che già da ora rende ancora più invivibile, con la
sua invadenza militare e finanziaria le condizioni degli sfollati
aquilani. Un G8 che sottrae e sottrarrà alla rinascita della città
risorse urbanistiche ed economiche preziose. L’ennesima beffa e
provocazione a danno dei terremotati abruzzesi. Un G8 per il quale
verranno sperperati 90 milioni di euro di denaro pubblico per stendere
un tappeto rosso sotto i piedi degli 8 potenti della terra (sotto i
piedi dei terremotati abruzzesi solo scosse e vipere), un G8 per il
quale il governo si sta adoperando in tutta fretta per mettere in
sicurezza da eventuali contestazioni gli 8 potenti della terra, nella
roccaforte blindata e antisismica della caserma ”Vincenzo Giudice”
(che potrebbe ospitare già da adesso 25.000 sfollati, o in alternativa
la sede dell’università dell’Aquila), un G8 per il quale verranno
sottratti agli sfollati altri 900mila euro per l’adeguamento
dell’aeroporto di Preturo alle esigenze di mobilità e sicurezza degli 8
potenti della terra (alle proprie esigenze di sicurezza e di mobilità
gli sfollati devono pensare da soli, senza intralciare le forze del
disordine a difesa del G8 e della più alta concentrazione in Italia di
depositi bancari, quale era l’Aquila sicuramente già prima del sisma del
6 aprile), un G8 per il quale già da ora il diritto alla mobilità, alla
salute, al lavoro, alla casa, alla sicurezza dei terremotati abruzzesi
passa in secondo piano rispetto ai privilegi e all’arroganza dei potenti
e dei governi.
Dal 6 aprile non abbiamo più diritto all’autogoverno, non abbiamo più
diritti. I malati vengono spediti fuori dall’Abruzzo per essere curati e
il personale medico, così come anche quello dell’università, se può
abbandona il territorio. Qui non c’è più lavoro per gli aquilani, qui
non c’è più neanche l’assistenza sanitaria minima, garantita prima del
terremoto.
Gli operai comunali sono a braccia conserte e la breccia delle cave
abruzzesi per i campi e per il G8 viene prelevata da ditte provenienti
da Milano o Torino perché, dicono, le cave non sono sicure, come se le
ditte di Milano o Torino conoscessero il territorio abruzzese meglio di
chi ci vive da sempre.
La disoccupazione nel territorio aquilano, già molto elevata prima del
terremoto, ora ha raggiunto livelli insopportabili per un tessuto
sociale così profondamente diviso e sparpagliato tra un presente di
tendopoli e alberghi-ghetto e un futuro di new town. L’Aquila nacque
dall’unione di 99 villaggi, che strinsero un patto per fuggire alle
vessazioni dei baroni feudali e garantire a tutti stessi diritti civici
e uso delle proprietà collettive, come boschi e pascoli. Ora questi
campi, le future new town, riporteranno indietro l’orologio di questa
città di almeno 8 secoli.
Fa caldo, troppo caldo nelle tendopoli e si muore di noia. Chi prima
aveva un lavoro, seppur precario, ora non lo ha più e migliaia di
famiglie non hanno più neanche un reddito su cui contare.
Né il governo centrale, né le amministrazioni locali si sono
concretamente impegnati a far ripartire l’economia del territorio,
privilegiando evidentemente speculazioni di interesse politico ed
economico a discapito del tessuto umano.
I prodotti locali dell’agricoltura e dell’allevamento, inutilmente
offerti alla protezione civile per il consumo nei campi, rimangono
invenduti e devono essere distrutti. Sono le grosse catene di
distribuzione e non i piccoli produttori indigeni a guadagnare
dall’emergenza. Nelle tendopoli gli sfollati non hanno certo diritto di
scelta e, mentre nelle stalle abruzzesi i vitelli invecchiano e il latte
deve essere gettato, nei campi la minestra è sempre quella del cibo in
scatola o surgelato, di dubbia provenienza e inesistente genuinità,
probabile concausa della recente epidemia di dissenteria.
I lavoratori aquilani sono costretti ad emigrare per trovare un lavoro,
anche perché di fatto, gli enti locali sono stati commissariati. La
popolazione, con il decreto 39 e relative ordinanze viene espropriata di
ogni potere decisionale in merito al proprio destino, sia per quanto
riguarda la fase dell’emergenza (impossibilità di autogestione nei campi
della protezione civile e blocco degli aiuti da parte della stessa nei
confronti dei campi autogestiti) sia per quanto riguarda quella della
ricostruzione, per la quale il suddetto decreto, invece di privilegiare
i lavoratori del posto, promette una giungla di subappalti ad imprese a
partecipazione mafiosa e massonica, provenienti da altre zone d’Italia.
Non siamo un popolo di accattoni, vogliamo solo quel che ci spetta: il
lavoro e la terra per ricominciare a sognare, per ricostruire le nostre
case, per vivere con dignità, come abbiamo sempre fatto. Ma qui ci
impediscono di lavorare e si prendono la terra e presto si prenderanno
anche tutte le nostre macerie, la nostra storia, i nostri ricordi, le
prove della loro colpevolezza oltre che della nostra vita.
Si prendono tutto il nostro tempo: il tempo che ci vuole per aprire e
chiudere una tenda della protezione civile ogni volta che si entra e che
si esce (stimato in media di 20′), il tempo che ci vuole (ore, giorni o
addirittura mesi senza risultati tangibili) per cercare di avere notizie
o documenti dall’infernale macchina del DICOMAC (DIrezione di COMAndo e
Controllo, l’organo di Coordinamento Nazionale delle strutture di
Protezione Civile nell’area colpita) e di quel che è rimasto degli
sportelli comunali, il tempo che ci vuole per cercare di chiamare, a un
numero verde sempre occupato, un autobus per potersi spostare (ore e a
volte giorni), il tempo che ci vuole per gli sfollati nella costa per
aspettare un autobus che non arriverà mai. L’Aquila è ormai una città
assediata dalla burocrazia e dalla militarizzazione, blindatissima per
il G8 ed ermetica alle concrete esigenze degli aquilani. Senza notizie e
informazioni gli sfollati sono costretti a file sfibranti solo per
lasciare il documento al maresciallo di turno ed uscire insoddisfatti e
sfiniti, pronti per un’altra fila presso un altro com o un altro ufficio.
Fa caldo, troppo caldo nelle tende e nelle file laceranti fuori dai COM
e fuori dalle mense, dalle docce, dalle tende con gli aiuti. Il tempo,
scandito dalle esigenze di profitto dall’emergenza e non da quelle della
ricostruzione del tessuto sociale, la convivenza forzata, la perdita
totale di ogni frammento di intimità e di identità collettiva nei luoghi
e nei tempi controllati dal disordine della protezione civile ed
associazioni da essa accreditate, l’ozio forzato cui sono costretti gli
sfollati cominciano a prendere forma nelle risse, nelle violenze alle
donne e nella guerra tra poveri. E mentre i carabinieri e i media
minimizzano, per evitare che questa rabbia gli si rivolga contro il
generale Bertolaso chiede aiuto all’arcivescovo e ai preti: “la gente
nelle tendopoli comincia a rumoreggiare, tocca anche ai sacerdoti
veicolare messaggi distensivi per evitare rivolte popolari”.
Naturalmente in una situazione così “surriscaldata” l’appello ai parroci
potrebbe non essere sufficiente e così il controllo governativo dei
campi profughi si capillarizza in chiave autoritaria, oltre che con la
militarizzazione dei campi stessi, anche con la gerarchizzazione delle
persone ivi ospitate. Nelle tendopoli le uniche assemblee popolari
consentite e incoraggiante, quando non direttamente indette dal
capo-campo della protezione civile, come è successo a piazza d’armi,
sono quelle per simulare la libera elezione dei responsabili civili per
la sicurezza, ossia i kapò. Un kapò per ogni etnia per meglio
controllare ogni comunità, praticamente scelto dal capo-campo in cambio
di condizioni privilegiate nella tendopoli stessa. Altro che Stato di
diritto e di democrazia! I campi sono blindati: vietato introdurvi
volantini e macchine fotografiche, vietato importare ed esportare
informazione e democrazia. Eppure a piazza d’armi c’è un presidio fisso
della rai che non trasmette nulla di ciò che accade lì, ad eccezione
delle passerelle degli sciacalli politico-istituzionali. Oltre quei
cancelli e quei recinti, solerti funzionari della digos e della polizia
in borghese vigilano affinché la gente rimanga ignorante, vigilano
affinché tra le maglie di quelle reti non passi neanche un filo di
libertà, di partecipazione.
Ma noi dobbiamo resistere, abbiamo il diritto-dovere di resistere, di
partecipare al nostro presente e di essere protagonisti del nostro
futuro. Vogliono fare il G8 all’Aquila? Noi abbiamo il diritto-dovere di
guastargli la festa prima che la festa la facciano a noi. D’altronde se
per luglio ci saranno ancora macerie le pietre non mancheranno!
NO AI CAMPI-LAGER!
NO AGLI ALBERGHI-GHETTO!
NO AL G8!
Per una rete di soccorso popolare

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