L’ASCOLTO COME DONO E RECIPROCITA’

Ascoltare all’interno della clinica psicanalitica.

Il processo analitico consiste nella rinarrazione di una vita, nella restituzione reciproca di storie di vita ad un altro, di dono alle reciproche alterità di conflitti irrisolti e poi ridimensionati nel dialogo inesausto e incessante, di pieni e vuoti, luci e ombre, di disvelamento e confessione a un interlocutore, l’analista, attento all’ascolto ed all’incontro con la memoria: da subito avviene l’incontro tra due memorie, quella di chi parla e quella di chi ascolta. Le diverse teorie pratiche dell’analisi, a partire da Freud e Jung, si fondano sull’ascolto come luogo ed avvenimento in cui rintracciare proprio la priorità e la fondatezza dei percorsi della memoria. Nel 1912 Freud raccomandava di porgere a tutto ciò che ci capita di ascoltare la medesima “attenzione fluttuante” e di rivolgere il proprio inconscio come organo ricevente nei confronti del malato che trasmette. La difficoltà di questo modo di procedere sarà sempre più problematica, tanto da definire la professione dell’analista un compito impossibile dopo l’educare ed il governare. All’interno del setting, la relazione analitica diventa transferale o meglio cotransferale fin dall’inizio. Per entrare subito nella definizione della pratica dell’analisi, questa è una costruzione comune, una co-creazione in cui i due partner, l’analista e l’analizzato scrivono assieme una verità narrativa, basata sull’incontro, sulle emozioni che affiorano, sulla memoria come organo vivente che ri-narra, ri-racconta e trasforma il ricordo in presenza. L’analisi è una co-narrazione e una costruzione a due vie, in cui la memoria dell’uno entra a far parte della memoria dell’altro e la narrazione si colloca all’interno di una dialettica del pensiero, o meglio, di una reciprocità totale a partire dall’inconscio. Le emozioni che l’analista vive, lo riguardano e sono la base indispensabile per l’analisi, mentre una volta il controtransfert era vissuto come un pericolo, un errore da fuggire, ora è riconosciuto come la premessa della relazione, quindi non esiste analisi, se non esiste una capacità di mettersi in gioco nell’ascolto assolutamente profonda e prioritaria da parte dell’analista.
L’analista viene visto come il portatore dell’istanza necessaria del controtransfert “qualcuno che permette a se stesso di essere agito da potenti forze sapendo che devono essere gestite e sfruttate, piuttosto che completamente controllate”. Il problema da porsi è se la scelta di una posizione d’ascolto, all’interno di una relazione, il tema della cocreazione analitica, è appunto quello della relazione affettiva e se la scelta della posizione d’ascolto possa essere intrapresa in modo completamente cosciente o meno. Altrimenti si cade o in un privilegiare il pensiero e la capacità di ascolto come consapevolezza razionale, quindi con un apparato di controllo da parte del pensiero, oppure a una specie di vortice delle emozioni. Come dunque procedere in una relazione dialettica in cui i partner sono chiamati all’ascolto come dono di sè? Portando in causa inconscio e conscio in una conarrazione e cocreazione. La prospettiva dell’ascolto è centrata sul soggetto paziente in un modello plurale, con la forza di mettersi in gioco di ciascuno e la conarrazione e cocreazione che vanno oltre e tengono conto di tutte le regole delle scuole di pensiero, dei fondatori, con cui poi, l’analista costruisce, a partire da se stesso, dalla propria storia e dalla creatività continua della personale vicenda umana, la realtà analitica, con cui si presenta al paziente, per cui davvero ogni paziente mette in moto qualcosa di nuovo ed ogni analisi ( come sosteneva Jung) è un percorso totalmente nuovo. Occorre centrare sulla prospettiva di ascolto e di reazione il lavoro in questa direttiva rischiosa, ma imprescindibile e ineludibile. Quello che noi incontriamo sta nell’inconscio dell’analista che deve accettare in questo processo di conarrazione e cocreazione qualcosa che scava dentro di sé ogni volta in modo più profondo, più forte, più significativo. Se si tratta di accettare, per esempio, il tempo della perdita, del lutto d’amore di un uomo, di una donna, ma anche di sé, della salute o della felicità, occorre ascoltare il grido e l’emozione che non è ancora parola, come scrive Ungaretti, in un poema descrive gli stati d’animo di Didone abbandonata: “Ora il vento si è fatto silenzioso e silenzioso il mare, tutto tace. Ma grido il grido sola nel mio cuore, grido d’amore, grido di vergogna del mio cuore che brucia da quando ti ammirai e mi hai guardato e più non sono che un oggetto debole. Grido e brucia il mio cuore senza pace da quando più non sono se non un corpo in rovina e abbandonata”. Non la parola, ma il grido, il suono del corpo dolente è quello di cui si sta in ascolto, la parola viene dopo oppure viene subito, ma è una parola gridata, ripetuta, non la parola della narrazione profonda ma vaga per conto suo e non ha ancora lo statuto di parola fino a quando non passa per le emozioni che sono espressioni del corpo. Il mestiere di chi ascolta non può fuggire davanti alle caverne che il dolore dell’altro va a scavare dentro sé, ma nel momento in cui non scappiamo, incontriamo in noi stessi gli stessi nuclei dolorosi dell’abbandono, della perdita, di questa origine comune per tutti. Questa premessa è fondamentale per capire il senso dell’alleanza terapeutica che sta alla base della prospettiva dell’avventura analitica e condivisa da rinegoziare, ogni volta, sulla base di questa conarrazione. Quello che si decide all’inizio va rimesso in gioco, va rivisto e ridefinito nel tempo e nell’analisi e con le difficoltà del percorso connesse a momenti legati all’ascolto, occorre ritrovare anche dentro sé il grido delle emozioni. L’ascolto profondo è minacciato da difficoltà che l’inconscio dell’analista mette di traverso nella seduta. Se questo è il percorso, questa la richiesta e questo l’impegno, possono subentrare delle resistenze ad affrontare tracce di dolore che non sono ancora rimarginate, ferite ancora aperte o che non si tollera di riaprire. Quindi l’ascolto può essere distratto anche se è professionalmente ineccepibile dal punto di vista della correttezza interpretativa. Non è con il trucco della sapiente interpretazione che si va a fondo nella storia del paziente. Perché l’interpretazione corretta succeda, occorre una qualità forte e profonda di memoria condivisa, di esperienza evocata, di emozioni e di quell’esperienza condivisa, perché l’analisi è la vicenda e la storia di quei due che parlano e si ascoltano in una stanza. Attrezzarsi all’ascolto significa predisporsi a qualcosa che non è la parola nel suo significato simbolico. La pulizia, il ripulire dal risaputo delle parole significa restituire alla parola una capacità di suono totale e vero come il vagito di un bambino. Ascoltare è allenare mente e cuore alla molteplicità della verità di ciascuno e quindi aprire l’orecchio all’ascolto. Quando ci si sforza di captare, comprendere e sorprendere la sonorità più che il messaggio, quale segreto si dispiega e si rende pubblico quando ascoltiamo una voce, uno strumento, un rumore? e l’altro aspetto indissociabile sarà allora: cosa significa essere all’ascolto, come quando si dice essere al mondo? Che cosa in termini di esperienza e verità viene messo in gioco nell’ascolto? Questo implica un’intensificazione e un impegno, una curiosità o un’inquietudine? Nell’incontro analitico, l’ascolto è l’apprendimento totale delle incertezze, nell’apertura all’altro, nel permettere all’altro di entrare in sé, di permeare la sua vita, di fargli sperimentare i sensi del suo essere. Questo mette in moto la risonanza che su un piano emotivo e fisico costituisce la cassa in cui l’ascolto riesce ad avere un significato profondo. Se si passa dall’ascolto sospettoso a quello rispettoso, mettiamo in moto un’attenzione innocente per l’altro, per le emozioni e la vita dell’altro anche per il male che si porta dentro. L’atteggiamento deve essere rivolto prima al rispetto che al sospetto, così la sospettosità perplessa è quella di un terapeuta con l’incapacità di essere attento perché distratto da problemi personali o da resistenze. La disattenzione, la disabitudine, l’incapacità di porsi in ascolto, fa male al paziente che si ritrova solo e perduto nei territori del non suono, se non vi è risonanza nell’analista. Il “non senso” nel vuoto della stanza del setting impedisce anche all’analista di prendere contatto con le ombre dell’altro, ma anche con le proprie e questo non ascolto finisce per impadronirsi della psiche dell’analista, lasciando la porta aperta all’incursione di quel male da cui tenta di difendersi. Il mestiere di chi ascolta è pericoloso, se non lo si pratica con orecchio attento, per cui si perde la creatività della cocreazione dell’analisi e la patologia rischia di impossessarsi dell’analista. Occorre stare molto seriamente in relazione con l’altro e con se stessi, facendo attenzione al male che si fronteggia e si affronta il dolore. Se si è disattenti questo contagio entra subdolamente nella psiche e quindi è necessario essere all’ascolto sempre, profondo e attento alle sfumature delle emozioni, al sentire quello che succede dentro, che non è un dire esterno e periferico, ma è un sentire, nella incertezza psiche/corpo, la parola fisica e psichica dell’altro. L’ascolto è denso di memoria, di presagi, di visioni, di immagini e suoni…esistono in noi un coro, una pluralità di voci che si riunisce nella conarrazione tra l’analista e l’analizzato. Allora l’analista, che ha tante voci per farsi ascoltare, utilizza la voce più consona all’ascolto: la voce del silenzio. Dialogare, discutere, parlare e ricavare biografie da queste modalità comunicative e raccogliere la personale autobiografia, costituiscono un’antica forma culturale, consueta, di incoraggiamento e autoriconoscimento, reciprocità verso l’alterità, come dono di sé, svelando la natura pedagogica delle parole, quando, dai racconti, dalle storie, si impara sempre di sé, degli altri, del mondo, in eventi di pensiero.
Il pensiero è l’ambito profondo dei giochi discorsivi e conversazionali, rivolgendo le attività della mente a orizzonti, possibilità, sfide, in salti cognitivi, in variazioni di mentalità, nell’emergere di immagini diverse dalla realtà: narrare e far narrare costituiscono, innanzitutto, una tecnica visionaria, in un
contesto quotidiano in cui troppo spesso si disperdono il senso e l’esperienza delle modalità narrative che rappresentano la storia di uomini e donne, la storia della trasmissione di sapere.
Nell’attuale crisi della narrazione e dell’oralità, si vive di suggestioni e immagini volte ad impressionare. La narrazione è una memoria in una trama da raccontare nelle intenzioni, negli scopi, nelle azioni dei protagonisti, nel significato di sequenze di storie, oltre gli stimoli, le impressioni, i segni chiusi in se stessi, suscitando emozioni, sviluppando interrogativi, pathos, enigmi, mistero.
La norma analogica della narrazione presenta un valore metaforico, simbolico, mitico. Il motivo logico è la morale nell’intrinseca pedagogia che insegna, consiglia, dimostra. Il metodo autobiografico ha capacità di promuovere desideri di conoscenza e trame di storie che sappiano educare e stupire.
Il senso biografico si evolve in antichi criteri narrativi dell’attività retrospettiva della mente. La memoria, il ricordo, l’evocazione, costituiscono un itinerario di indagine sulle cronologie, le stagioni della vita, i ricordi più significativi che si sviluppano nella didattica autobiografica con chiari scopi di carattere cognitivistico, dove il ricordare è produzione di racconto in una sorta di “teleologia retrospettiva” elaborata, secreta, suturata insieme da molteplici insegnamenti.
La riattivazione di abilità cognitive necessarie alla rimemorazione, conseguente al fare autobiografia, diviene rievocazione poetica, ricerca di significato, sviluppando un’intelligenza interiore e analitica che stimola un nuovo amore di sé.
L’autobiografia viene raccontata o scritta e dipanata nel rapporto conversazionale, ingenerando forme di riconoscimento, di autoapprendimento e autodisvelamento che permettono di costruire varie traiettorie di trame esistenziali, all’interno di un’alleanza con il narratore che aiuti a stabilire nessi ed interconnessioni tra gli indizi, gli eventi o i fatti descritti, con legami, interconnessioni che svelano il significato al disegno della trama esistenziale, di ricomponibilità interpretativa.
L’apertura conoscitiva e trasformativa lenta e impercettibile è implicata nel gioco narrativo che ingenera potenzialità di rappresentazione, comprensione e risignificazione di eventi, contesti e relazioni all’interno dell’interazione dialogica tra ascoltatore/ricercatore e narratore/soggetto che condivide tempi e spazi dell’ascolto collaborativo, quale risorsa apprenditiva, nell’ambito della quale si realizza la possibilità per il soggetto di intrattenersi con se stesso, di ascoltare il mondo interiore, di raccontarsi nelle apicalità dell’incontro dialogico. Il soggetto di una storia di vita incompiuta, riscrivibile e reinterpretabile a partire dagli eventi, dagli incontri e dagli episodi della personale esistenza, nel racconto può accingersi al recupero, al ritrovamento di tratti, tracce, trame, segmenti salienti, continua apicali, momenti cruciali e di svolta della storia di vita narrata, individuando le figure significative, la ricomposizione e l’identificazione di momenti, incontri nella molteplicità di biografie che abitano interiormente ogni soggetto narrante, in molteplici interconnessioni. Gli intrecci delle biografie affettive, cognitive, professionali e desideriali, con l’esperienza del racconto e dell’ascolto producono conoscenza ed effetti trasformativi che suppliscono al problema dell’attribuzione di senso e significato alla trama narrativa, nel problema del senso di una vita sotto il tessuto del discorso biografico e con esso la ricerca di significatività nel passato, il nesso tra la continuità e la discontinuità delle biografie interne che hanno conosciuto momenti di vitalità, pause e arresti.
La significatività pedagogica volta al ripensamento autobiografico avviene sia tramite l’ascolto monologico che l’ascolto dialogico, dinamiche relazionali che ingenerano nel soggetto apprendimento, a partire da se stesso come narratore e rievocatore da eventi di ricordi e apprendimento rimotivazionale, per il cambiamento, per la relazione. Nell’ambito del contesto narrativo del racconto, il soggetto riconsidera sé stesso, le esperienze implicite, il proprio percorso formativo, professionale e i grandi temi vitali con cui è stimolato a formulare considerazioni e riflessioni critiche autoreferenziali, al fine di far emergere la personale rappresentazione mentale della complessità di eventi, di significazioni, di situazioni nelle consuetudini del pensiero, di scelte e soluzioni, in un’elaborazione differita del contesto narrativo in trasformazioni cognitive ed operative. Nel racconto di sé si scompone e ricompone la propria storia, attribuendole voce tramite la narrazione evocativa, nella declinazione rimemorativa, a ritroso, di esigenze personali e formative, desideri, vocazioni e propensioni nella revisione di progetti di rimotivazione personale e professionale.
L’incontro dialogico matura una nuova rappresentazione di sé, di ulteriori forme d’agire, di pensabilità, investimenti emotivi e stili relazionali, nel tempo della potenzialità, dell’ipotesi metabletica, dell’autoriflessività e trasformatività, nell’ascolto che offre la disponibilità decentrativa, alla problematizzazione e alla riconsiderazione critica di sé, di situazioni, scelte e responsabilità, riacquisendo capacità di autoascolto, autoanalisi, autocomprensione e autoapprendimento.

Spazi e tempi di racconti in evoluzioni narrative.
Le trame della narrazione.

L’approccio biografico, in ambito sociologico, rimanda come scenario all’America degli anni ’20 e ‘30 con la Scuola di Chicago, la cui prassi veniva espletata tramite la raccolta di autobiografie relative al disagio urbano, con lo scopo di mettere in comunicazione culture e subculture diverse. La ricerca è supportata da interviste, testimonianze, schede autobiografiche. L’utilizzo delle storie di vita si trasforma in strumento d’indagine e di conoscenza autonomo, in una metodologia qualitativa con un’autonomia epistemologica di sfida scientifica dell’uso di storie di vita nell’assegnare alla soggettività un valore di conoscenza.
La narrazione autoriflessiva racconta vicende che si svolgono nella prassi umana. La vita è praxis di rapporti sociali trasformati in struttura psicologica e narrativa. Il metodo biografico fa scaturire un’ingente potenzialità relazionale che rivoluziona l’impostazione tradizionale dell’analisi epistemologica, come l’interazione tra soggetto e ricercatore che si collocano attivamente nel contesto della ricerca e sono implicati nel processo riflessivo e metabletico.
L’approccio autobiografico, nell’ambito delle scienze dell’educazione, diviene strumento di ricerca qualitativa perché si basa sulla soggettività, intesa come unicità e specificità. Con il pensiero della complessità, supportato dall’epistemologia sistemica, subentra la “qualità” come categoria significativa nella ricerca del metodo autobiografico, che diviene esperienza euristica ed insieme ermeneutica, in un approccio che si configura quale strumento, non solo di ricerca, ma anche di formazione. L’autoformazione derivante dalle esperienze di vita sono fondamenti del processo formativo. L’autoriflessione biografica è una modalità di apprendimento dall’autobiografia, perché permette di riscoprire se stessi tramite l’analisi di aspetti dell’esperienza troppo spesso relegati all’oblio. La pratica autoformativa del metodo narrativo costituisce un mezzo di autoriflessione e autoconoscenza quale ricostruzione e riedificazione della personale identità nella ricerca dei diversi sé del passato, grazie ad un consapevole ritorno interiore e autoriflessivo, tramite la narrazione di sé, con la possibilità di attribuire significato anche al presente, di esplicitare connessioni e rimandi del testo di una vita, per riformulare un progetto di sé. Il passato del vissuto personale trascorso non è sempre lineare e continuo, ma frammentario e discontinuo, per cui subentra la necessità di cogliere i nessi di interdipendenza o connessione, armonizzando la molteplicità dei diversi tempi di vita. Il sé, la vita, narrati dalla soggettività del narratore si declinano verso la ricerca di senso e significato nelle esperienze personali esplicate durante il rapporto tra uditore-ricercatore e soggetto-narratore, impegnati a ricercare un senso e costruire un significato dell’identità proiettata nelle tracce dei percorsi dell’autobiografia che permettono di ristrutturare immagini di sé destinate a mutare e formare, in modalità poliedriche, le polimorfe facce dell’identità personale. Il tentativo di ridefinizione e riconoscimento del sé come istanza dinamica nelle sue poliedriche sfaccettature, si genera nel racconto autobiografico, dando origine ad un’identità polimorfa, molteplice, errante, nomade, priva di stabilità e in grado di presentare svariate dimensioni. La molteplicità dell’identità non è da attribuire ad una istanza frammentaria di tipo patologico, ma ad un Io diviso nelle molteplici parti del suo sé, ovviando al rischio di disgregazione. Pur coesistendo diversi sé all’interno della psiche umana, rientra nei compiti dell’età adulta far fronte all’esperienza dell’incertezza nella difficoltà di identificarsi con le diverse parti, facendole coesistere. Il processo dell’autobiografismo tramite l’esplicazione narrativa può ingenerare processi cognitivi autoriflessivi che rendono espliciti i percorsi individuali di significazione cognitivo-emotiva della propria esperienza. La modalità di pensiero autocognitiva attiva una riflessione retrospettiva e organizzazionale a cui si combina un’attività cognitiva immaginaria e finzionale tramite cui il soggetto sviluppa una dimensione progettuale nel futuro, divenendo capace di costruire ed inventare uno spazio di vita proiettato in una dimensione futuribile. Il nesso indissolubile tra memoria e identità, tra autoriflessione e autobiografia mette in evidenza la memoria come realtà dinamica costruttiva, narrativa, tra oblio e ricordo, censure e rivelazioni, strutturata come un mosaico. L’autoriflessione biografica in età adulta favorisce un’articolazione flessibile della soggettività tramite la produzione narrativa.

La pedagogia narrativa e il disagio adolescenziale

La pedagogia narrativa e autobiografica (o della memoria retro-introspettiva) e l’insegnamento dialogico sono gli strumenti didattici ed educativi migliori per affrontare le problematiche preadolescenziali ed adolescenziali in cui gli insegnanti si trovano sempre coinvolti. La pedagogia della memoria e la didattica retrospettiva, inerente la propria autobiografia, è uno strumento ottimale anche per riconoscere il disagio nascosto in classe, e pur non essendo psicologia, questo strumento ha in parte la pretesa di cercare di sviscerare i problemi per metterli in discussione o comunque portarli alla coscienza. Ho approfondito anche a livello teorico gli argomenti inerenti il metodo autobiografico anche a livello di produzioni scritte.
Infatti il sapere autobiografico ha una sua costruzione. Il sapere autobiografico, anche a livello scolastico, indica un modo di essere più che un’azione ed è modellato su conoscenze stabilite e cumulabili, con caratteristiche di centrazione e gerarchizzazione, quale intreccio fattuale e normativo che coinvolge, crea e utilizza simultaneamente sistemi di concettualizzazioni e di valori, tramite la possibilità di riscoprire con un lavoro di metacognizione, origini e radici esperienziali delle personali conoscenze e parti delle identità cognitive. La riflessione epistemologica sul proprio operato e studio, basata sul paradigma della complessità, valorizza e scopre il rapporto con il sapere costruito all’interno del progetto di laboratorio autobiografico, modellato su seduzioni e relazioni reali, appartenenti alla trama vitale ed al contesto pratico, quale sapere costruito, prodotto dall’esperienza con le cose e dalla relazione con noi stessi. La svolta epistemologica prevede la visione del sapere come un tutto che integra sistemi e livelli di conoscenza prima ritenuti delimitati da una metodologia parcellizzante e ipersemplificante. L’autobiografia quale metodo e percorso di conoscenza e di pratica attiva, trans o metadisciplinare, attraversa e unisce tutti i campi del sapere che hanno come punto focale il vivente e come trama organizzatrice la totalità autoorganizzantesi. La biografia è un processo ontogenetico e sociogenetico proprio del percorso evolutivo di un soggetto e della sua narrazione e diviene modello e non metodo. Un modello alternativo e concreto di conoscenza, di ricerca e formazione, perché non esiste un modello senza una dinamica epistemologica portatrice di una irriducibile complessità, specie relativa alla ricerca relativa alle storie di vita.
L’autoformazione è tecnologia alternativa del dominio educativo, così come il metodo dell’intervista biografica è alternativa metodologica propria della ricerca sociale. La svolta epistemologica del modello autobiografico è passaggio dalla fiducia onnipotentistica dell’individuo tecnologico in concezione lineare, cumulativa e evolutivista. La formazione deve consistere in un saper fare. La logica della produzione si accorda male al legame della riflessione retrospettiva, quale autobiografia in quanto forma di conoscenza di sapere in senso non solo legittimo, ma anzi privilegiato. La categoria dell’autobiografico non è riducibile all’ideologia della formazione e nemmeno a pura e semplice metodologia, ma possibile istanza trans-formativa e motivazionale. Il processo di formazione tramite il metodo autobiografico diventa presa di coscienza per attivare un empowerment che scaturisce dalla scoperta di avere una tradizione, una storia, un’identità. L’epistemologia della critica in autobiografia, della comprensione e della riflessività è antidoto alla tecnologizzazione della formazione, quale pre-requisito per ogni forma di cambiamento istituzionale, anche in ricerca e in formazione, fino ad assumere connotati di dissidenza. Una importante istanza trans-formativa riscontrabile nel metodo autobiografico consiste nella ricerca di senso e significato, come la ricerca del bene, dell’identità, della conoscenza che diventano saggezza intesa come arte del vivere.
Il percorso autobiografico attraversa plurimi significati, connotati di senso, simbolismi e trame che ogni storia di vita presenta, con sensi, emozioni, rimandi diversi oltre l’uso didascalico e pleonastico delle accezioni, con nessi profondi anche nella stasi, nei silenzi, nei non detti, in tutte le note marginali della nostra esistenza. Il pensiero narrativo interpreta la storia di vita come testo presente da decodificare, quale essere altro rispetto alla vita in sé e per sé, nella questione del significato aperto a potenziali de-costruzioni e ricostruzioni. Il circolo ermeneutico con la sua infinita e costitutiva ricorsività non è solo rappresentazione dell’esistenza, ma permette un discorso narrativo che costituisce e inventa la vita. Il modello autobiografico consiste in una pratica euristica che si esplica in pensiero narrativo e discorsivo, caratterizzato da intenzionalità, sensibilità al contesto, ragionamento analogico/metaforico, in un globale processo di costruzione di senso, quale concezione ultima dell’educare.

La progettualità temporale delle storie di vita.

Nel fare storia come ricerca delle ragioni di vicende trascorse e attuali nel passato, la narrazione si configura come un non possibile e non pensato del processo trasformativo della dimensione autobiografica del progetto quale topos educativo come costruttore di un disegno esistenziale. La storia di una vita è rifigurata quale incompiutezza narrativa di riconfigurazione di una trama di storie in nozioni di incompiutezza narrativa nell’incontro con le molteplicità e le rappresentazioni di sé tramite l’identità narrativa. Il riconoscimento delle molteplicità di narrazioni possibili del progetto autobiografico e biografico che disegna la forma dell’anticipazione del passato consiste nella costruzione dinamica del sentimento di identità. La storicità del progetto ha un potere mediatore tra lo spazio e il tempo dell’esperibilità nella tensione dialettica dell’immaginazione e della simbolizzazione del prevedere, progettare e pianificare. L’esperienza apicale del margine di libertà può reinventare e risignificare l’imprescindibilità della relazione significante e significativa tra storia passata e immaginata in autobiografie e progetti, vettori simbolizzanti che non si concludono e non si esauriscono nel racconto retrospettivo. I caratteri e i bisogni latenti di riconoscimento e riorientamento consistono in tensioni tra il già avvenuto e l’ancora da realizzarsi. La riappropriazione riorientata nella relazione tra progetto e storia narrata è una condizione di apprendimento permanente, per cui il soggetto si impegna in progetti di delucidazione ed emancipazione di ricerca del topos epistemologico e vitale del processo metabletico nel racconto autobiografico. La riflessione di significati di azioni e connessioni che disegnano questa forma di storia nella riattualizzazione di significato, senza perdersi nel cambiamento stesso, si rileva in prefigurazioni di sé, parti narrative soggettive ricercate in un’immagine credibile. Il progetto è occasione di esperibilità di un’incompiutezza intinseca alla storia del soggetto, nel senso di sostenibilità, prefigurabilità e praticabilità. Il soggetto vive l’esplorazione, premettendo una prefigurazione e una precomposizione reversibili, nella tolleranza all’ambiguità e all’attuazione di abilità di negoziazione rispetto a momenti di crisi o perdita intrinseci all’autobiografia-progetto, in cui il soggetto esperisce e apprende comportamenti erranti ed erratici.

La creatività narrativa

La valenza formativa della molteplicità minacciosa e disperdente, vitale e rigenerante di un incontro esistenzialmente significativo ed educativo, rivela molteplicità e occasioni di apprendimento e cambiamento. Reinventare e risignificare l’incontro con le molteplici narrazioni di sé del soggetto nel ruolo di autore e attore, nella sperimentazione di un’autorità come progetto è importante fattore di costruzione dell’identità personale del soggetto, quale creatore di azioni e di senso.
L’identità narrativa rappresenta anche la potenzialità di interpretazione del senso della narrazione, nell’orizzonte temporale soggettivo, frammentario e multiforme, della riconfigurazione semantica nella ristrutturazione ricorsiva dei giochi della narrabilità di sé. L’identità narrante avvia l’atto narrativo significativo e significante, retrospettivo e progettuale, che incontra una possibilità, un’occasione di riconnettere nessi e logiche di senso nei ritmi e nelle forme della narrazione multidirezionale e multiritmica.

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