di Gaia Benzi
Le lotte sociali, l’unica vera opposizione al governo e alla crisi
Il diario dal movimento di Gaia Benzi, studentessa di lettere e filosofia all'Università La Sapienza di Roma.
E' passato molto tempo da quando ho scritto l'ultima volta su questo spazio. Eravamo rimasti alle botte, alla repressione e alla violenza; tanti appuntamenti importanti aspettavano me e gli studenti, i lavoratori e la democrazia italiana; c'era tanto da decidere e organizzare.
E tanto è successo in queste tre settimane. Non mi pento di non averlo raccontato: dovevo riflettere. Sentivo la necessità di approfondire quello che stava accadendo, perché la mera cronaca, per quanto importante, non sembrava bastare. Le riunioni, le assemblee, le manifestazioni e le liti, anche, le discussioni, i momenti di tensione e l'imponenza del Circo Massimo non erano abbastanza per me; non più. Non dopo gli ultimi sei mesi di movimento.
In queste settimane io ho assistito a una sconfitta. Una sconfitta amara e pungente che parte soprattutto da un'aporia identitaria senza apparenti cure. Ho assistito al dispiegarsi faticoso di lotte sociali stroncate dai loro stessi referenti – sindacali e politici. Ho visto un'intera fazione ripiegarsi su sé stessa ma senza colpe, senza coscienza: era persa, fra i meandri di una confusione atavica, privata a colpi di propaganda di ogni razionalità, ogni strategia.
Ho visto migliaia di persone interrogarsi senza cercare risposta, come in attesa di una parola rassicurante e non già di un incitamento. Persone che, malgrado la crisi, stanno facendo tanto per mantenere vivo il desiderio e concentrare l'attenzione sui problemi reali: quelli dell'istruzione pubblica, ad esempio. Persone che stanno dando tutto, che hanno fatto il possibile affinché un movimento come quello studentesco – ma non solo – potesse continuare a fremere, nelle sue istanze fondamentali, sotto le ceneri dell'inverno, per poi esplodere nuovamente in primavera; che l'hanno fatto perché ne erano convinti.
Me compresa. Ma ora non riesco più a trattenermi dal constatare mestamente che anche la rivolta studentesca, per quanto profondamente motivata e sostenuta da noi tutti, risente di alcune tare strutturali che – per sue forze – non può chiaramente né sanare, né ignorare.
Abbiamo risentito di alcuni vantaggi derivanti dall'anti-politica, che io sono più propensa a definire come opposizione al parlamentarismo; ora ne subiamo, come un boomerang, il contraccolpo pesante. La nostra lotta era a tutti gli effetti una lotta sociale, e con altre lotte sociali essa si è concatenata. Ma è stata bloccata al varco dall'assenza di un referente politico; e l'impossibilità di individuarne uno nel sistema partitico – impossibilità di per sé non fatale -, è stata aggravata dall'incapacità profonda di immaginarne uno al di fuori di questo sistema.
La nostra attitudine alla connessione con altre istanze sociali ha risentito altresì di tale carenza. Il colpo mortale è stato però l'humus primigena entro cui tali istanze sono venute a formarsi, e ovvero proprio la radicale opposizione al parlamentarismo di cui sopra.
Io credo non si sia analizzato abbastanza il problema del cosiddetto “allontanamento” dalla politica e il virus dilagante che porta a considerare lo spettro politico in maniera indifferente. La sostanziale uguaglianza di destra e sinistra che viene oggi promossa e sbandierata da molti media e autorevoli commentatori mi spaventa, e mi fa presagire il peggio per la nostra nazione.
Innanzitutto, va considerato che l'allontanamento dalla politica non si è dato in maniera uniforme. Mentre a sinistra una buona dose di militanti ha perso ogni speranza e ha preferito ripiegare su un astio individuale e un rancore bilioso verso la propria classe dirigente – colpevole d'incapacità e priva di qualunque lungimiranza -, a destra un notevole numero di giovani e meno giovani si è avvicinato alla partecipazione politica, e con decisione si è iscritto al partito, alla sezione, è andato al congresso e ha fatto la sua parte nel teatrino dell'incoronazione del Capo, felice di essere una comparsa nel kolossal.
I militanti di destra non sono spaventati da quiz e questionari: hanno sempre la risposta in tasca. E anche i simpatizzanti hanno ben chiaro il motivo della loro affezione al PdL e alla destra italiana, che del centro ormai conserva solo il nome. D'altro canto Berlusconi e la sua creatura vengono definite spesso “anomale”, e per questo rifiutate a priori; quando invece rientrano alla perfezione in una tendenza globale che va avanti, ormai, dagli inizi degli anni Ottanta, che ha visto nella Bolivia di Paz e nell'Inghilterra della Thatcher i suoi pionieri, e nella Russia e nella Cina la sua apoteosi – per non citare l'America di Bush.
Sto parlando, chiaramente, dell'ondata neoliberista, neocon, o se vogliamo semplicemente dell'applicazione sistematica dell'ortodossia di Chicago sul laissez-fare economico che ha investito progressivamente l'intero pianeta, a partire dai paesi sottosviluppati fino a giungere nelle case e nelle strade delle democrazie occidentali. Una dottrina, questa, che non ha margini di negoziazione, e che si configura appieno come ideologia nella sua accezione più becera e anti-libertaria, malgrado le apparenze retoriche e la connivenza dell'Onu, dell'Fmi e della Banca Mondiale. Un'ideologia che sembrava nata morta col disastro del '29 e la mattanza del Cile di Pinochet, e che invece è risorta dalle sue ceneri permeando ogni angolo della terra.
Le cantilene assordanti che l'accompagnano hanno operato non solo per rinsaldare le convinzioni e spostare l'asse dei liberali moderati verso una concezione sfrenata del capitalismo, ma anche per distruggere l'identità degli oppositori, a partire non tanto dai marxisti convinti e dalla sinistra definita oggi radicale, quanto dalla sinistra cosiddetta moderata, teorizzatrice dello Stato pesante e della socialdemocrazia che però non disdegna il parlamentarismo, e che anzi tenta di sfruttarlo per le proprie rivoluzioni riformiste. E dopo la caduta del muro di Berlino e piazza Tienanmen, l'unica ancora commerciabile sul mercato politico, di fronte un'opinione pubblica scandalizzata e, anche lei, sempre più deviata verso l'accettazione incondizionata del binomio capitalismo/libertà.
La dottrina di Chicago, che nulla ha a che vedere con il semplice libero mercato, è stata spacciata per l'unico corollario economico possibile in quest'epoca di distensione planetaria: ed è soprattutto qui che risiede la sua vittoria più importante. In realtà, l'ideologia del laissez-fare, della deregulation, della cancellazione dello stato sociale e della privatizzazione senza se e senza ma, ha ovunque dimostrato la sua carica violenta e spiazzante, la sua tendenza a prediligere regimi autoritari e dittatoriali. Ma la sua capacità profondamente sviluppata di convincere il popolo che una sospensione momentanea delle regole della democrazia, dovuta allo stato d'emergenza (crisi, guerre, calamità), sia assolutamente naturale e fisiologica le ha permesso di impiantarsi anche nelle costituzioni democratiche; mentre invece tale sospensione di naturale e fisiologico ha soltanto le conseguenze programmate che ne sono anche causa: l'applicazione in blocco di riforme brutali, che penalizzano pesantemente studenti, lavoratori e più in generale redditi medio-bassi – ergo, la maggioranza della popolazione.
Il risultato è una profonda disparità nella distribuzione della ricchezza, la concentrazione di beni e benessere nelle mani di pochi e la sottrazione, agli altri, non solo del necessario alla sussistenza, ma anche dei mezzi indispensabili per riottenerlo. Fra cui i partiti politici di sinistra.
In Italia questo è particolarmente evidente. Altrove, la rivoluzione neoliberista è stata interamente affidata a partiti di sinistra – cosa che ha contribuito notevolmente alla disaffezione generale per questa fazione; e anche qui da noi, in parte, è andata così. Ma ora un testimone più credibile è sopraggiunto e non c'è più necessità che un partito di sinistra riformista prenda sulle sue spalle il fardello pesante di far passare leggi indigeste, contrarie agli interessi del proprio elettorato e dissonanti rispetto alla sua storia politica; ora la destra è pronta a raccogliere l'invito, assai fascinoso, di potersi arricchire e implementare il corporativismo senza nemmeno la fatica di dover partorire uno straccio di giustificazione teorica agli occhi del popolo.
Così abbiamo, allo stato attuale, due grossi blocchi partitici, uno definitosi centro-destra (dove centro è la parola di troppo), l'altro centro-sinistra (e qui è sinistra, a stonare).
Per quanto riguarda il PdL, non c'è molto da dire: rappresenta in pieno il sogno dei Chicago Boys. E' un partito autocratico, che ha formato un governo autocratico, che possiede tutti i mezzi necessari per sospendere le regole democratiche quando lo ritiene opportuno (Genova docet) e che ha tutto l'interesse ad applicare la dottrina neoliberista per rimpinguare le casse delle proprie aziende – proprie nel senso di appartenenti ai membri del partito e a qualche elettore di lusso. Al quale non interessa né aiutare i cittadini né risollevarli dalle miserie, e che può sempre contare su un'emergenza – creata ad arte come quella securitaria, o reale, come la crisi o un disastro naturale – per avocare a sé maggiori poteri e distogliere lo sguardo dell'opinione pubblica shockata dalla cancellazione di diritti, garanzie e reddito. Un partito che può comportarsi da despota senza per questo sconfinare in un regime apertamente dispotico, portando a casa il malloppo ma salvando la faccia.
Per quanto riguarda il PD, esso è chiaramente vittima delle sue stesse scelte politiche. Si è fatto irretire dal fascino del neoliberismo in salsa democratica e ha provato a farsene portavoce, per distaccarsi sempre più da quelle politiche sociali che puzzavano di Urss, di Cuba e di America Latina prima dei golpe. Ha avvicinato i diretti interessati – Confindustria – e ha cercato di farseli amici, ogni tanto li ha pure arruolati. Ma questo solco è storicamente perdente: tra una brutta copia e l'originale, chi di noi sceglierebbe la brutta copia? Per l'appunto. E ora, che pian piano ne sta prendendo coscienza – viva i sondaggi -, disorientato da anni di cerchiobottismo fra un'eredità svuotata d'ogni sostanza e una prospettiva senza speranze, farnetica di riforma pensionistica e tasse ai ricchi che però, inserite nel nulla – delle alleanze, delle proposte, della visione di società -, nulla produrranno.
Far ragionare il governo sulle risposte alla crisi? Ma perché? E perché il governo dovrebbe trattare? Ha a disposizione la social card e altre inutili trovate per irretire gli sciocchi, e un radicato apparato di controllo e manipolazione per zittire gli altri; non è vero che non fa gli interessi del proprio elettorato: fa gli interessi di una parte del proprio elettorato, forse non la più consistente ma di sicuro la più ricca. Da un punto di vista diplomatico è ampiamente coperto: il recente G20 gli ha fornito la scusa perfetta per tirarsi fuori dai giochi. In quel di Londra, tutti i leader sapevano di dover dare un “segnale positivo”, e così hanno fatto: hanno dato un segnale. Cosa ne sarà delle bellissime parole che continuano a pronunciare, nessuno può dirlo con certezza. La mia impressione è che non sia cambiato quasi nulla, nel senso che non sono state ancora intaccate le basi che hanno permesso a questa crisi di esplodere e ai ceti medio-bassi di sconfinare nella povertà dall'oggi al domani. (La lotta ai paradisi fiscali? E perché non la legalizzazione delle droghe, pesanti e leggere? E i mercati che crollerebbero in seguito a questa trovata chi li calmerà, chi li convincerà a non scatenare una guerra?) Il G20 per me rappresenta una pezza messa a un vestito stracciato per evitare un suicidio globale, per scongiurare il pericolo di rivolte di massa. Quando la crisi sarà passata, le lobby rimpinguate dalle casse pubbliche perché “bisogna far girare l'economia” torneranno a premere sui governi, e l'illusione della centralità politica propagandata nel vuoto di un'alternativa credibile perderà ogni mordente, e si tornerà punto e da capo.
Inoltre continuando la battaglia a livello puramente mediatico, il PD si sta segando le gambe alla grande, rinunciando a quelle piazze che potrebbero fornire ciò che gli manca in termini di controllo dell'opinione pubblica – ovvero dei media – e risorse economiche. Ecco, forse questa è la sua colpa più grande e più evidente: non tanto l'essersi disorientato, quanto l'aver disorientato la propria base, lasciandola sola a combattere le angherie delle destre mondiali; e l'aver trascinato con sé in questo delirio revisionista anche i sindacati. E qui ritorniamo al punto di partenza.
Il centro-sinistra italiano ha prodotto quel mostro che vorrebbe l'indifferenza fra storie e fazioni, aiutato in questo da una destra che ne incassa a bella posta i vantaggi. Per cui chi continua a credere nei partiti e nel PD si ritrova confuso e frustrato, e chi invece punta sui movimenti e le lotte sociali – ormai visti in contrapposizione al PD – si ritrova semplicemente frustrato e sconfitto. Chi lascia stare l'uno e gli altri – perché non è, come si dice, “tipo da piazza”, e probabilmente si ritiene un moderato super partes – o vota Di Pietro, oppure si getta a capofitto nel rifiuto totale del parlamentarismo, senza però avere in mano un sistema di contro-potere reale che possa scardinarlo e decidere altrimenti da quello. La cosiddetta anti-politica nasce, cresce e si rinsalda inutilmente. Gli stessi movimenti spesso rifiutano colori politici precisi – e ne vanno fieri – perché sono composti semplicemente da “gente per bene” che fa le cose che ci sono da fare e dice le cose che vanno dette. Ma che non influiscono di una virgola sulla realtà.
Malgrado ciò, io continuo a credere nell'importanza delle lotte sociali e delle ondate di movimento. Se c'è un punto da dove ripartire, è e dev'essere questo. Sono l'unica vera opposizione al governo e alla crisi, hanno in mano tutte le carte per poter costruire una meravigliosa alternativa capace di spazzare via alcune miserie dalla nostra nazione. Ma non riescono ad andare oltre l'iniziale atomizzazione delle istanze, non riescono a smetterla di osservarsi reciprocamente guardinghe e mettere da parte le differenze per concentrarsi sulle cose in comune. E, soprattutto, non riescono a riconoscersi come facenti parte di uno stesso panorama: un panorama di sinistra.
E' questo che le blocca. L'illusione della neutralità impalla gran parte dei movimenti; il resto risiede nell'incapacità di coordinarsi o per immaginare un contro-potere fuori dal parlamentarismo (ma che sia vero, non liste civiche e “incursioni” nelle istituzioni), o per fare pressione affinché i referenti politici – per così dire – “papabili” cambino rotta e si prendano la responsabilità di una vittoria concreta. Qualche mese fa dissi che, a mio avviso, era necessario saldare i movimenti per cominciare a modificare in maniera unitaria e coordinata l'immaginario giuridico del nostro paese. E ora lo ribadisco, aggiungendo però che è necessario caratterizzare questa unione come unione di forze sociali, non civili: perché anche le lotte civili nascono e crescono sulla pelle delle ingiustizie sociali. Ma, soprattutto, caratterizzarla come unione a sinistra, di sinistra.
E se ancora siamo convinti che definirci di sinistra – e agire da sinistra – sia controproducente, che sia qualcosa da evitare, che non porti a risultati immediati, dovremmo ricrederci: e constatare, alla luce dei fatti, che “dire sinistra è male” è una convinzione che ci hanno inculcato gli avversari, per piegarci a novanta e inculcarci poi altro. Alla luce dei fatti, a lunga scadenza, recuperare la sinistra, la sua diversità, la sua particolarità, la sua forza propulsiva – non solo progressista – è l'unica chance che abbiamo per adombrare la possibilità di una vittoria. E' l'unico percorso che possiamo realisticamente cominciare a intraprendere: perché solo partendo dalla percezione della differenza, dalla qualità delle idee in gioco, si potrà cominciare a tracciare un programma – anche economico – e intravedere un futuro. E' questa una visione in primo luogo culturale, un primo passo che si trova di fronte, indubbiamente, una lunga marcia. Un progetto a lunga scadenza, insomma – ma il governo sarà lungo, il tempo c'è: prendiamocelo.
In finale, a quelli che, leggendo queste righe, storceranno il naso e mi daranno per persa, vorrei chiedere una cosa. Vorrei chiedere una cosa a tutti i fautori della fine delle ideologie e delle istanze novecentesche; vorrei chiedere una cosa a tutti quelli che proclamano ad alta voce l'uguaglianza dei due schieramenti avversi e se ne lavano cristianamente le mani, demandando la scelta al soffio propizio del vento; vorrei chiederla a tutti coloro che si sentono la coscienza pulita per il solo fatto di andare a teatro, leggere un libro o guardare un film di denuncia, tutti coloro che pensano di essere informati perché conoscono i risultati delle sentenze e la lista delle vittime dei regimi passati.
Vorrei chiedergli se c'è differenza. Ma non fra la destra e la sinistra così, in astratto – due parole che, ormai, rimandano solo a muffiti emicicli e pianisti svogliati. Non fra l'applicazione ugualmente brutale di due opposti programmi, o la corruzione equamente diffusa “ma forse di là un po' di più”. No.
Vorrei chiedere loro se c'è differenza fra il progettare una scuola e immaginare un parcheggio. Se c'è differenza fra il diritto ad essere curati e il dover dare un prezzo alla propria salute. Se c'è differenza nel bere a una fontanella e comprare una bottiglia d'acqua al supermercato. Se c'è differenza fra l'assunzione di medici e maestri e il loro licenziamento. Se c'è differenza fra i fondi alla ricerca libera e il suo assoggettamento ad interessi parziali. Se c'è differenza fra mezzi pubblici efficienti e il costo della benzina. Se c'è differenza fra un salario minimo sostenibile e quattrocento euro al mese. Se c'è differenza fra la cassa integrazione e il niente, la certezza dell'assunzione e il niente, fra diritti, garanzie, e il niente.
Vorrei sapere se c'è differenza fra il finanziare l'edilizia sociale o favorire la speculazione privata. Se c'è differenza fra il permettere a pochi di allargarsi la cantina e il dare a tutti quanti una casa. Se c'è differenza tra il diminuire le disuguaglianze ed aumentarle. Se c'è differenza fra l'aumento delle spese sociali e il loro smantellamento; fra la comunione dei beni e la loro svendita ai privati; fra la presenza di regole che proteggono tutti, o la loro assenza, che favorisce solo i potenti e conduce, inevitabilmente, a una giustizia di classe.
Perché per me c'è differenza, e non è una differenza da poco. E' la linea di demarcazione molto netta che ancora oggi distingue chi ha costruito la storia delle sue vittorie e dei suoi fallimenti nelle lotte sociali, e chi invece ha derivato i suoi programmi dalle paure, dalle miserie, dalle fobie dell'Uomo Qualunque e dalle teorie deliranti di una cricca a Chicago. La linea che già a suo tempo divideva chi aveva il coraggio di appoggiare Salvator Allende e il suo programma di sviluppo democratico e chi invece ha osannato Pinochet per le sue aperture al mercato, giustificando la Cia e ignorando la repressione.
Per me c'è una differenza fondamentale fra chi crede, smentito dai fatti e condannato dalla Storia, che un laissez-faire mai abbastanza sfrenato salverà il mondo e chi invece denuncia, con costanza, determinazione, con convinzione anche nella sconfitta, che invece quel poco di mondo che resta ne verrà inghiottito. Un laissez-fare che ha condotto a questa crisi, e che in Italia si è trasformato in un fate vobis all'amatriciana, con spruzzatine di sacro incenso qua e là e l'aggiunta di un naturale menfreghismo.
C'è una differenza, c'è ancora: e se dire sinistra significa dire queste cose, per me è necessario farlo. In questo contesto è l'indifferenza ad essere colpevole e criminale, insita certamente nella nostra natura di popolo battuto, umiliato, sedotto e abbandonato da decine di eserciti stranieri; ma che adesso si sta aggravando nello shock pesante di una crisi economica e una tragedia nazionale. Questo è un vecchio canovaccio, d'altronde: il disorientamento – anche ideologico – che assale la popolazione ai margini dello scuotimento, ne converge lo sguardo sul presente e la rende incapace di abbracciare con la mente ciò che stanno facendo al suo futuro. Si approfitta dello stato di temporanea incapacità d'intendere e di volere per privarla delle scuole, delle mense, delle case, degli ospedali, degli autobus e della giustizia, della libertà di movimento e del diritto al dissenso, delle garanzie contrattuali e delle protezioni sindacali, e infine della sua stessa capacità di immaginare un mondo dove vivere sia meno faticoso, meno laborioso, e più appagante; della sua stessa capacità di giudicare un mondo così non un'utopia astratta e irrealizzabile, ma un suo diritto – qui e ora.
D'altronde non è colpa nostra se abbiamo dimenticato dov'è e di cosa è fatta questa linea di demarcazione, questa differenza. Hanno scritto e detto di tutto per convincerci che pretendere un futuro migliore sia direttamente collegabile a regimi totalitari e criminali. Ci hanno imbottito di quel qualunquismo caldo e accogliente, l'illusione mite di avere un posto nel mondo e un'opinione su tutto. E in quest'amalgama meravigliosamente soffice che si fa chiamare alternanza, accordo e concertazione – e alla quale si sono piegati, primi fra tutti, i nostri dirigenti – ci stanno allegramente privando di secoli di rivendicazioni e conquiste sociali.
Dura svegliarsi da questo torpore di fronte alle macerie di edifici pubblici crollati per l'incuria di uno Stato profondamente disinteressato al sociale e alle sue esigenze. Dura riscoprire il senso di comunità e la percezione dell'ingiustizia in maniera tanto impudica e infelice. Dura cercare di rivendicare, assieme alla dignità perduta, il senso di questa differenza, dell'importanza delle lotte sociali, nella speranza che possano – un domani – stornare altre crisi e altre tragedie evitabili. (Micromega)