Nel leggere i primi nomi dei candidati al Parlamento europeo, trovo — e me ne dolgo — conferma di quanto da lei sostenuto in una risposta ad alcune mie preoccupazioni sulla sottovalutazione del ruolo sempre più importante di tale istituzione da parte dei nostri politici: i partiti sono aziende e quando vincono debbono ricompensare i loro fedeli. Ebbene, se le cose stanno così, che se li eleggano da soli e non umilino i cittadini chiedendo loro di agire da «claque»!
Del resto non ho sentito finora alcun rappresentante di partito dire «qualcosa di europeo» e allora, per fare «qualcosa di europeo», ho deciso di avvalermi della disposizione introdotta dal Trattato di Maastricht e votare per un candidato belga: non è che siano necessariamente migliori ma almeno — non foss’altro perché sono sul posto— parteciperanno più attivamente ai lavori parlamentari degli italiani, ben noti per essere i più assenteisti.
Pierpaolo Merolla , | p.merolla@telenet.be
sergio romano
http://www.corriere.it/romano/09-04-10/01.spm
Caro Merolla,
Come lei avrà notato, la scena politica italiana è divisa in due campi. Da un lato vi sono i Berlusconi, i Di Pietro, i Nichi Vendola che considerano le elezioni europee alla stregua di un maxi sondaggio e «corrono» soltanto per conquistare qualche punto sul piano nazionale, ma si dimetteranno verosimilmente non appena saranno stati eletti. Dall’altro vi sono quelli che, come Dario Franceschini, segretario del Partito democratico, sostengono l’opportunità di candidare a Strasburgo soltanto chi assume in tal modo l’impegno di restare nel Parlamento europeo sino alla fine del mandato. Ma anche i Democratici, beninteso, sanno che il voto verrà interpretato come un indice della loro popolarità e faranno una campagna anti-berlusconiana in cui i temi dell’integrazione europea avranno un rilievo modesto. Nessuno dei due schieramenti, in altre parole, ci dirà che cosa pensa dell’Europa e delle questioni che il Parlamento dovrà affrontare nei prossimi mesi, dall’adozione di nuove regole finanziarie per le banche e le società d’assicurazioni alla creazione di un grande mercato unificato dell’energia. In una nota editoriale per Agence Europe (l’Agenzia fondata a Bruxelles nel 1953), Ferdinando Riccardi scrive che il 60% della legislazione europea richiede l’approvazione del Parlamento e che la percentuale salirà al 90% dopo la ratifica del Trattato di Lisbona.
Vi è dunque in questa faccenda un curioso paradosso. L’argomento più frequentemente utilizzato contro l’Unione europea è quello del «deficit democratico». L’Europa di Bruxelles e Strasburgo, secondo gli euroscettici, sarebbe burocratica, tecnocratica, insensibile agli interessi dei suoi cittadini e impegnata in misteriose transazioni di cui il «popolo» ignora il significato e gli scopi. Non è vero, ma la leggenda prevale sulla realtà e crea pregiudizi che la stampa, se non ha una forte vocazione europea, non cerca di sradicare. È questa quindi l’occasione per rendere omaggio alle due persone — Ludovico Riccardi ed Emanuele Gazzo — che fondarono nel 1953 l’Agenzia Europa. Riccardi fu presidente dell’Ansa e Gazzo, giornalista genovese, divenne, dopo avere partecipato alla Resistenza, uno dei più entusiasti seguaci del Movimento federalista europeo di Altiero Spinelli. Insieme, Riccardi e Gazzo si trasferirono a Lussemburgo, dove si era da poco installata la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, e da lì a Bruxelles. Gazzo è scomparso nel 1994 ed è stato ricordato nel 2004 con un convegno genovese dedicato alla sua persona. Quando lo conobbi e lo frequentai a Bruxelles nella prima metà degli anni Ottanta, la sua Agence Europe era la lettura obbligata di tutti i corrispondenti accreditati a Bruxelles. Mi fa piacere sapere che la sua tradizione non è andata perduta. sergio romano