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Madonnina, tutta una mafia

di Davide Milosa, il manifesto

Ogni mattina, cascasse il mondo, salgono i pochi gradini del palazzo di Giustizia di Milano, prendono l'ascensore e si fermano al quarto piano, quello della Procura. Entrano in uffici che rigurgitano carte, informative giudiziarie, brogliacci di intercettazioni. Loro annotano, confrontano, evidenziano, ascoltano. Per tutto il giorno non fanno altro. Quindi si incontrano. E quando si riuniscono sono sempre in tre. Fanno gruppo. Sono il nuovo pool antimafia della procura di Milano. Sono i sostituti procuratori Ilda Boccassini, Alessandra Dolci e Mario Venditti. Una novità assoluta non ancora formalizzata ma che funziona a pieno regime già da qualche mese. Il pool oggi è la dimostrazione di quanto sia grave l'infiltrazione mafiosa in Lombardia. Un'infiltrazione guidata e programmata dall'alto di una cupola che ha nel clan calabrese Barbaro-Papalia il suo vertice assoluto.

Milano come Palermo, dunque. E come in Sicilia anche qui la battaglia è chiara, aperta, dichiarata: da un lato questi tre magistrati, dall'altro un esercito di uomini d'onore pronti a tutto. Perché all'ombra del Duomo la mafia esiste. C'è e si vede. Addirittura si sente. Quando uccide ad esempio: tre morti in appena tre mesi, da marzo a settembre 2008. Tre boss freddati in luoghi pubblici. Come a Platì o a Gela o a Casal di Principe. A Milano la mafia fa rumore quando spara nei cantieri che sono “roba loro”, tanto sicuri da usarli per testare le armi. Capita ad Assago alle ex Cartiere Binda. Capita troppo spesso, solo che qui fino ad oggi tutto è scivolato via in nome di una strana idea di pulizia morale tanto dannosa quanto colpevole. «La mafia a Milano non esiste. La Piovra è soltanto una favola raccontata in televisione, questa città è sana e pulita». Lo disse negli anni Ottanta un sindaco socialista. Non era vero allora, non lo è soprattutto oggi con gli uomini della 'ndrangheta e di Cosa nostra che si spartiscono droga, appalti, ristoranti, discoteche.

Gli affari sono tanti e quando qualcosa non va, ci sono picciotti dal grilletto facile da reclutare nelle periferie di Quarto Oggiaro, della Barona, di Baggio, del Corvetto, tutte ottime palestre criminali. Perché anche a Milano gli imprenditori che non si piegano vengono gambizzati, mentre chi collabora paga una tangente, anche qui i sindaci onesti ricevono proiettili in busta chiusa, anche qui capita che dodici camion per il movimento terra vadano a fuoco in una sola notte, anche qui le gare d'appalto sono truccate, anche qui le teste di capretto vengono ritrovate all'alba appese ai cancelli delle case di alcuni industriali.

Fatti del genere se ne contano a decine, ma fino ad ora erano stati tutti interpretati come episodi scollegati l'uno dall'altro. L'obiettivo del pool, invece, è quello di mettere assieme le varie piste. Un lavoro in fondo semplice. È bastato, infatti, analizzare le diverse inchieste per accorgersi, ad esempio, che il clan Barbaro oltre a gestire in totale monopolio mafioso il movimento terra nei cantieri di Milano, aveva in mano anche tutti i lavori della Tav.

Ecco cosa è successo: nello scorso luglio Alessandra Dolci, brillante pm cresciuta all'ombra di Alberto Nobili, il padre della Nord-Sud, l'inchiesta che ha svelato vent'anni di mafia in Lombardia, ha arrestato Salvatore Barbaro, il giovane boss dell'edilizia. Lo stesso che aveva rapporti stretti con il cugino Pasquale Barbaro, il referente, secondo Mario Venditti, per i lavori nei cantieri dell'Alta velocità.

Ecco perché ogni giorno i tre magistrati del pool confrontano dati, sovrappongono fatti, proseguono a cerchi concentrici, svelando a poco a poco uno scenario criminale senza precedenti. Così dall'Arco della Pace si passa a Buccinasco e si arriva fino a Monza, da qui alle infiltrazione nel comune di Desio e poi oltre verso la Brianza. E mentre le pagine delle informative aumentano, le intercettazioni rivelano inquietanti dati di fatto. Il più clamoroso: una telefonata in cui due boss disegnano in diretta la mappa del controllo mafioso in Lombardia.

Così, se in Procura stanno i buoni, là fuori vivono i cattivi, quelli che il Comune di Milano, tanto impegnato nel combattere rom e clandestini, dimentica o vuole dimenticare, ad esempio, boicottando la Commissione antimafia votata dal consiglio. E intanto il direttivo mafioso progetta nuovi affari. Al vertice, si è detto, il clan Barbaro-Papalia che ha nel 25enne Domenico Papalia, figlio del superboss Antonio Papalia, il nuovo referente per il nord Italia. Una carica di responsabilità. Ma lui, che vive a Buccinasco e che molti chiamano già don Mico, è uno che sa giocare da golden-boy del crimine. Scrivono gli investigatori: «Domenico Papalia è in grado di aggregare attorno a sé gruppi di giovani provenienti da Platì affascinati da facili guadagni particolarmente attivi e mobili nel traffico di droga». Il giovane boss in aprile si sposerà a Platì con una Barbaro. Intanto prende decisioni sui fatti di sangue da compiere a Milano e dirime controversie negli affari. Così se a Baggio i calabresi Muià hanno problemi con un gruppo di siciliani, lui interviene, ascolta e poi decide.

Dal canto suo Ilda Boccassini, il magistrato che prima dei processi a Silvio Berlusconi mise a segno la prima inchiesta di mafia al nord, subito ribattezzata Duomo connection, seguendo le tracce di Luigi Bonanno, proconsole milanese dei Lo Piccolo, ha incrociato un noto imprenditore astigiano legato ai boss e già comparso nell'inchiesta sulla 'ndrangheta del pm Dolci. Da qui poi è ripartita disegnando la nuova presenza di Cosa nostra.

Milano, infatti, non è solo la capitale degli affari mafiosi ma è anche città di latitanti. I boss in fuga all'ombra della Madonnina hanno appoggi importanti. E così uno come Gianni Nicchi, l'ultimo vero erede dei Corleonesi, già delfino di Bernardo Provenzano e Nino Rotolo, nel capoluogo lombardo ha vissuto per mesi senza problemi. Dove? «Girava voce – racconta il pentito Andrea Bonaccorso – che Nicchi fosse a Milano protetto da Enrico Di Grusa». Di Grusa è il marito di Loredana Mangano, la figlia di Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore. Non solo, secondo un altro pentito, assieme alla moglie gestirebbe una serie di cooperative costituite ad hoc per creare fondi neri utilizzati da Cosa nostra. Di più: Enrico Di Grusa, secondo i magistrati siciliani impegnati oggi nel processo al clan Lo Piccolo, «a Milano costituisce una filiale del mandamento palermitano di Porta Nuova dedita alla tutela di latitanti». Un nucleo, quello di Di Grusa, che da un lato «beneficia di amicizie importanti come quella con Marcello Dell'Ultri», vecchio amico di Vittorio Mangano, e dall'altro aggrega attorno a sé boss di livello come Sandro Mannino, uomo d'onore di Passo di Rigano che si incontra con le figlie dell'ex stalliere del presidente del Consiglio. Su questo lavora oggi il pool di Milano. Tutte vicende che prima si perdevano in mille rivoli, e che invece oggi compongono un unico romanzo criminale tutto da leggere.

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