l Parlamento europeo è il grande sconosciuto della politica italiana

Carlo Alberto Tabacchi e Pietro Imperia

Cari lettori,
Il Parlamento europeo è il grande sconosciuto della politica italiana. Ne parliamo generalmente quando qualcuno ci ricorda che i nostri deputati sono pagati più generosamente dei loro colleghi stranieri o nelle occasioni in cui la stampa euroscettica del Regno Unito ci racconta che alcuni dei suoi membri dormono su un divano dell'ufficio per non pagare l'albergo. Le campagne elettorali per il suo rinnovo non ci dicono quasi nulla sulla politica europea dei nostri partiti. Le elezioni servono a verificare i consensi dell'elettorato nazionale e a trovare una decorosa collocazione per coloro che l'allenatore ha deciso di lasciare in panchina. Poi, improvvisamente, apprendiamo che il Parlamento ratifica la scelta dei commissari e può costringerli ad abbandonare l'incarico, come accadde qualche anno fa nel caso di Rocco Buttiglione; che può sfiduciare di fatto una Commissione come accadde nel caso di quella presieduta da Jacques Santer; che può mettere in imbarazzo un Premier europeo, come accadde nel caso di Silvio Berlusconi; che può modificare considerevolmente una direttiva della Commissione, come accadde nel caso di quella preparata dal commissario Bolkestein sulla liberalizzazione dei servizi; che il presidente di turno dell'Unione deve sottoporsi al vaglio degli eurodeputati; che le commissioni del Parlamento lavorano a Bruxelles, nel corso della settimana, con i ritmi di quelle dei parlamenti nazionali. Il Trattato europeo di Nizza del dicembre 2000 ha considerevolmente aumentato le sue competenze, e quello di Lisbona, quando verrà approvato, lo renderà ancora più determinante. Ma su tutto questo noi abbiamo notizie vaghe e frammentarie.
Il guaio è che altri Paesi lo trattano con grande serietà. Mentre noi contempliamo l'ombelico italiano come se fosse il centro del mondo, i deputati tedeschi, tanto per fare un esempio, partecipano diligentemente ai suoi lavori e conquistano posizioni influenti. Mentre parecchi dei nostri deputati vanno a Strasburgo per «timbrare il cartellino », quelli di altri Paesi lavorano in aula, nelle commissioni e nei corridoi dove si preparano le strategie e le alleanze. Esiste un problema linguistico? Durante le sedute plenarie ogni deputato può usare la propria lingua. Nelle altre occasioni le lingue più usate sono tre: inglese, francese e tedesco. Sta nascendo, fra Strasburgo e Bruxelles, una classe politica europea; e noi, di questo passo, rischiamo di non farne parte.
È questa la ragione per cui auguro buona fortuna a un appello preparato da cinque istituti europei: l'Istituto Affari Internazionali di Roma, il Centro Studi sul Federalismo di Torino, l'Europäische Politik Institut di Berlino, Notre Europe di Parigi e il Federal Trust di Londra. L'appello è firmato da Tommaso PadoaSchioppa, è indirizzato alle opinioni pubbliche e inizia così: «I cittadini europei eleggeranno il loro Parlamento in un periodo travagliato per il continente e per il mondo: crollo della produzione e del commercio; aumento della disoccupazione e rischio di diffusi disordini sociali; ricorrenti crisi energetiche ed emergenze climatiche. L'Europa rischia una progressiva marginalizzazione dalla scena mondiale e un collasso del mercato interno grazie al quale la prosperità è cresciuta e si è diffusa nel corso degli ultimi sei decenni. Il mondo rischia una brusca inversione di tendenza sia della crescita del benessere economico sia del contenimento delle forme estreme di povertà; le conseguenze politiche, sociali e di sicurezza potrebbero essere disastrose. Le politiche nazionali da sole, per quanto illuminate, non possono evitare nessuno di questi rischi. Anche i Paesi più grandi e potenti non hanno capacità sufficienti ad affrontare le sfide globali emergenti».
Se vi capiterà d'incontrare un candidato alle elezioni europee, cari lettori, chiedetegli se ha letto queste parole.

pietro.imperia@libero.it

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