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Non basta un’“Alcina” per celebrare Hà¤ndel

Le fortune di Georg Friedrich Händel (1685-1759), di cui ricorrono i 250 anni dalla morte, sono state per lungo tempo scarse. Autore di 40 opere e 30 oratori, pochi suoi lavori sono stati rappresentati nel nostro Paese quando era ancora in vita. Nel Settecento una sua sola opera venne portata in un teatro commerciale, nonostante le fortune incontrate da quel tipo di teatro durante il XVIII secolo. Solo il Maggio Fiorentino del 1940, manifestazione deputata alle riscoperte, si ricordò del compositore sassone e mise in scena “Aci e Galetea”, opera pastorale a basso costo che richiede pochi interpreti e uno scarno organico orchestrale. Mentre a Londra la Händel Society metteva in scena o eseguiva in forma di concerto quasi l’intera opera omnia e negli anni Settanta nella pur provinciale Washington c’era ogni anno un Händel Festival con tre-quattro titoli di opera, per non dire della Germania e dell’Europa centrale, in Italia una vera e propria “Händel Renaissance” non si ebbe che negli anni Ottanta. Per di più limitata a pochi titoli (principalmente “Giulio Cesare in Egitto”) e grazie agli sforzi di un numero ristretto di teatri quali La Fenice di Venezia, il Festival di Spoleto e la Sagra Musicale Umbra.

Un gruppo di cultori per lo più britannici, inoltre, si riuniva ogni estate nel chiostro di Santa Croce a Batignano in Toscana. Insomma, rappresentazioni importanti ma per poco pubblico e a carattere semi-dilettantesco. In più, sino a poco tempo fa, Händel operistico è stato “adattato”: venuti a mancare i castrati, molti ruoli maschili sono stati abbassati di un paio di ottave per affidarli a baritono oppure consegnati a mezzo-soprani o a soprani lirici; i “da capo” delle arie sono stati tagliati; molti passaggi eliminati e interi personaggi dalla vocalità troppo ardua fatti sparire. Si è tentato, spesso, di scimmiottare le macchine barocche, talvolta con successo (un “Orlando” a La Fenice e un “Tamerlano” a La Pergola), altre volte in maniera fallimentare (l’edizione ronconianiana, a Bologna e non solo, di “Giulio Cesare”).

Si è tardato a comprendere quanto ribadisce da anni Jurgen Schlädler, esperto tedesco di teatro in musica. Nelle opere di Händel ciò che conta non è la struttura fiabesca fatta di castelli incantati, fontane meravigliose e destrieri alati, quanto “il messaggio sotto la cute che il gioco psicologico dei protagonisti trasmette” al pubblico. Era un messaggio sentimentale e sensuale, ma mai erotico, neanche in “Semele” che di eros poteva dare molteplici pretesti, in cui si riconosceva il pubblico della pudibonda Gran Bretagna del Settecento. Anzi è proprio questa “vita interiore” che avvicina il pubblico odierno, specialmente quello giovane, verso un barocco la cui fine era stata decretata più di 200 anni fa. Lo si riscontra dal successo strepitoso che da oltre un lustro raccoglie a Zurigo “Il trionfo del tempo sul disinganno”, inizialmente concepito come un oratorio a quattro voci per un dopo-cena cardinalizio, ma rappresentato come una meravigliosa commedia per giovani adulti di seduzioni e corteggiamenti senza mai scendere nell’erotico. Händel non è Cavalli che nella proibizionista Venezia della Controriforma raccontava di sesso tra calli e campielli.

La messa in scena di “Alcina” alla Scala di Milano sino al 27 marzo, è uno degli eventi di punta in Italia delle celebrazioni per i 250 anni dalla morte di Händel. Gli altri sono la prima rappresentazione nel nostro paese di “Partenope” (a Ferrara, Modena e Napoli) e un nuovo allestimento del “Trionfo del tempo sul disinganno” al Maggio Fiorentino e allo Sferisterio Festival di Macerata. “Alcina” del 1735 è un’opera matura di Händel, destinata al Covent Garden costruito tre anni prima e attrezzato con le più moderne macchine sceniche dell’epoca. Fa parte della trilogia dei lavori tratti da “L’Orlando Furioso” di Ariosto, assieme a “Orlando” e “Ariodante”. Ha un intreccio complesso di magie, tradimenti, battaglie, cacce, con l’inserimento di balletti. Venne modulata per un cast vocale eccezionale, in primo luogo per il castrato Giovanni Carestini nel ruolo del protagonista Ruggiero. Perché il pubblico di oggi dovrebbe interessarsi a una storia di intrighi, imbrogli, cavalieri, fattucchiere e mori sulla via della prima crociata? Probabilmente l’intreccio, nonostante l’apprezzabile libretto di Antonio Fanzaglia, interessava poco allo stesso Händel, il quale del resto non intendeva scrivere musica d’accompagnamento per un “colossal” spettacolare. La “vita interiore” dei personaggi era il cuore della sua ispirazione.

Nell’allestimento milanese (regia di Robert Carsen, scene e costumi di Tobias Hoheisel) la vicenda di “Alcina” è stata trasferita ai giorni odierni. Priva di orpelli, quindi, tratta di scambi di coppie, d’incerti orientamenti sessuali (una delle protagoniste travestita da uomo per meglio correre alla ricerca del fidanzato rischia di essere sedotta dalla Fata Morgana), e anche – perché no? – del successo del bene, inteso come schiettezza e trasparenza, sul male, visto come doppiezza. La storia si dipana in una villa – francese o britannica – dei giorni nostri, o meglio in un periodo imprecisato della seconda metà del Novecento. Seguendo (con molte libertà) il poema di Ariosto, la maga Alcina è una divoratrice insaziabile di maschi di bell’aspetto, trasforma in animali, piante e pietre chi, di volta in volta, seduce. Non lo fa con Ruggiero in quanto sinceramente innamorata. La vicenda si complica perché la moglie di Ruggiero, Bradamante, vestita da uomo arriva in villa per riprendersi lo sposo. Il travestimento è così efficace da attirare la Fata Morgana (complice e sodale di Alcina) verso quello che crede essere un bel ragazzo. Gli intrighi non mancano sino allo scioglimento finale: il pentimento di Alcina e la liberazione dei maschi-oggetto in suo potere.

L’attualizzazione di “Alcina” non è stata gradita da parte del pubblico della Scala alla prima rappresentazione la scorsa settimana. Ha però un significato: priva di orpelli medievaleggianti, l’opera mette in risalto la “vita interiore” dei personaggi. Ci sono aspetti discutibili: Händel, va ribadito, non è erotico e del resto come avrebbe potuto esserlo un sassone alla corte di re Giorgio e, per di più, compositore di musica sacra? Quindi, inutile la pletora di nudi maschili e in particolare la scena di Alcina a letto con tre maschioni senza indumenti: come avrebbero potuto, oltretutto, fare sesso in una piazza e mezzo? L’opera viene rappresentata in un’edizione che dovrebbe essere vicina all’originale, scorciata di una buona mezz’ora (lo spettacolo dura comunque circa quattro ore) con l’eliminazione del balletto, di un personaggio e dell’intreccio secondario corrispondente. Non sono peccati veniali: basta un raffronto con il disco dell’edizione presentata a Monaco nel 2005 per rendersi conto come la resa drammaturgica e musicale sia differente e i personaggi risultino molto meno “scavati”. La direzione musicale è affidata a Giovanni Antonini, animatore per lustri de “Il Giardino Armonico” ed esperto come pochi nel repertorio di Vivaldi. Trasferisce nel golfo mistico la raffinata eleganza del “prete rosso”, perdendo, quindi, parte del pathos händeliano.

I problemi principali sono le voci. Non perché non siano belle o educate, ma perché la Scala non è né il Palais Garnier di Parigi, né il Prinzregententheater di Monaco né la Opernhaus di Zurigo. In breve, è troppo grande e troppo afona per un repertorio in cui il virtuosismo vocale è essenziale e che è stato concepito per teatri di piccole dimensioni. “La Piccola Scala” sarebbe stata ideale per questo tipo di spettacoli che in Italia, acusticamente parlando, dovrebbero essere riservati al “Massimo Bellini” di Catania. Pur se con qualche difficoltà nelle tonalità alte, Anja Harteros (Alcina) primeggia su tutti senza difficoltà: scolpisce il ritratto di donna focosa, ma innamorata e tradita. Monica Bacelli (il ruolo di Ruggiero era stato concepito per uno dei castrati più noti dell’epoca) ha una voce ben educata, ma priva del volume necessario e fisicamente è minuta accanto alla statuaria Harteros. Scenicamente difficile capire come la mangiatrice di uomini abbia perso la testa per un cavaliere quasi “mignon”, specialmente dopo che si sono visti tutti i dettagli dei tre fusti con cui divide il letto tra una pausa e l’altra del corteggiamento di Ruggiero. Patricia Petibon è una Morgana-soubrette da opéra-comique: la si ricorda come magnifica Sophie in un viennese “Rosenkavalier”, ma stavolta è decisamente fuori ruolo. Kristina Hammarström è una Bradamante appena efficace. Poco da dire del basso e del tenore i cui ruoli sono stati ridimensionati dalla potatura del lavoro (è stato eliminato il personaggio di Oberto, giovanotto respinto da Alcina). Cosa dire? La Scala per Händel avrebbe potuto fare qualche sforzo in più.

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