di monsignor Giuseppe Casale, arcivescovo emerito di Foggia-Bovino
Mi sono accostato al lettino ove Eluana Englaro ha vissuto il suo dramma e ho sentito lancinante il dolore per la sua morte. Non sono riuscito a sottrarmi a un senso di profonda “pietas”, di umana commozione e condivisione; e ho rifiutato qualsiasi atteggiamento di condanna, di scontro ideologico, di partito preso. Mi sono domandato più volte: “Come si sarebbe comportato Gesù?”. E la risposta è sempre stata la medesima: “Amare, comprendere le ragioni della giovane donna e del papà, Beppino”. Non c’era in loro il rifiuto della vita. C’era la reazione contro un accanimento terapeutico che non apriva ad alcuna prospettiva di guarigione. Il ricorso alla magistratura si era reso necessario per la mancanza di una legge che regolamentasse, nel rispetto della volontà del paziente, i momenti finali della vita. Come molti medici ed esperti del problema ho ritenuto e ritengo che l’alimentazione forzata sia da considerare terapia medica (perché utilizza nutrienti e non alimenti e viene somministrata per via artificiale) e, perciò, affidata alla libera scelta del paziente o di un suo delegato. E, nel merito, ho creduto alla buona fede di Beppino Englaro.
Non si chiedeva la morte. Non si voleva uccidere una vita. Come ha scritto un filosofo cattolico (Giovanni Reale), si rifiutava “l’abuso da parte di una civiltà tecnologica totalizzante, così gonfia di sé e dei suoi successi, da volersi sostituire alla natura”. Lo ripeto. Non si voleva sopprimere una vita. In questo senso avevo richiamato l’atteggiamento di Giovanni Paolo II, che aveva espresso il desiderio di non insistere con interventi terapeutici inutili. Non avevo assimilato i due casi (come qualcuno impropriamente mi ha accusato di aver fatto). Giovanni Paolo II era ancora cosciente ed è stato curato sino all’ultimo. Eluana era in coma da 17 anni; e il padre ha ritenuto di rispettare la sua volontà. Neanche io vorrei vivere attaccato alle macchine come Eluana. Anche per me chiederei di staccare la spina. In attesa dell’abbraccio del Padre che mi attende. Ogni giorno ripeto a me stesso la frase di S. Ignazio di Antiochia: “Un’acqua viva mormora dentro di me e mi dice: vieni al Padre” (Lettera ai Romani).
Perché, allora, tutto quest’accanimento che ha favorito strumentalizzazioni di parte, scontro tra governo e magistratura, accuse pesanti dall’una e dall’altra parte?
Alcuni mi hanno accusato di aver svolto una parte “extra chorum”, cioè fuori della comunità. Ma, in coscienza, sento di essere sempre rimasto fedele alla mia missione di “Pastore”, perché ho sostenuto le ragioni dell’amore, della vita, della libertà. Sono questi i motivi che mi hanno spinto non fuori del coro, ma a recitare una parte da “solista” (in verità, non troppo solo) allo scopo di non far mancare le note necessarie a rendere più armoniosa la voce della comunità. Non di quella parte chiassosa e intemperante. Ma, di quanti, fedeli al Vangelo, nel silenzio e nell’operosità quotidiana, hanno condiviso la sofferenza di Eluana, di Beppino Englaro e delle migliaia di bambini che muoiono di fame (l’Osservatore Romano del 25 gennaio riporta una notizia agghiacciante: diecimila bambini ogni giorno muoiono uccisi dalla fame).
Faccio il mio esame di coscienza. E mi permetto di invitare tutti i difensori della vita a fare altrettanto. (Micromega)