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Nonno o “abuelo”?

Pochi giorni fa, un tecnico venuto in ufficio per dei lavori di elettricità, che conoscevamo per suo cognome spagnolissimo, ci disse: “Da parte di madre sono di famiglia italiana. Mia nonna era di Macerata e prima di morire volle scrivere la storia della famiglia, per tramandare a figli e nipoti, quella che era stata la loro epopea”. Così ci raccontò la storia di quattro fratelli marchigiani che agli inizi del XX secolo arrivarono nella provincia di Santa Fe e si stabilirono tra quella città e la cittadina di Vera, lavorando nelle campagne e nella costruzione della ferrovia. Una storia di sofferenze, sacrifici, dolori (tra l’altro la morte dei più piccolo dei fratelli e il terribile momento di raccontarla alla madre), di lavoro e sicuramente anche di allegrie, visto che alla fine la famiglia si era stabilita nella zona, i fratelli si erano sposati e a loro volta avevano costituito le proprie famiglie. Una storia esemplare, come tante di tanti nostri emigrati, che hanno fatto l’Argentina. L’elettricista ci ha detto altre inoltre che aveva voluto cambiarsi il cognome, per rendere omaggio alla nonna e alla sua famiglia della quale si sentiva fiero, senza però riuscirci. Poi ci ha detto: “Mio figlio, che è piccolo, a volte si lamenta perché a scuola lo prendono in giro, perché invece di chiamare i miei genitori “abuelos” li chiama nonni”.

Forse sarà un caso. Forse il bambino è troppo sensibile. Forse succede solo in quella scuola. Forse siamo noi troppo suscettibili. Credevamo però che i tempi in cui quando prendevano in giro un bambino perché chiamava nonni i genitori dei suoi padri, erano passati.

Intendiamoci. Non è che stiamo denunciando un caso de xenofobia o di razzismo nei confronti di noi italiani. Ci mancherebbe altro!

Ci sembra invece che, col passare del tempo, la forte influenza italiana nella società argentina, si va affievolendo. Per oltre un secolo, migliaia, milioni, di italiani sono emigrati al Plata, dando a questo Paese e alla società che li ha accolti una caratteristica tutta speciale, non riscontrabile in altre società. Possiamo ricordare ancora una volta quella frase attribuita a Borges sugli argentini come “italiani che si esprimono in spagnolo”, tanto per illustrare quanto forte sia stata tale influenze nel dna degli argentini.

Visto però che da quasi mezzo secolo gli italiani non arrivano più in questo Paese e che gli emigrati di allora per forza di cose sono andati scomparendo, l’idea stessa di influenza italiana comincia a perdere forza.

Succede però che se viene posto questo problema, c’è chi dice che in realtà l’influenza italiana e così vasta ed evidente, che sarebbe eccessivo insistere sull’argomento.

E invece non è eccessivo, perché la società argentina è mutata profondamente, i mezzi di comunicazione tendono a rendere uguali tutte le società, per cui diventa necessario sottolineare le specificità e fondamentalmente i valori che rendono una società diversa dall’altra, perché nella diversità c'è un comune arricchimento.

Come comunità italiana, dovremmo guardare sia allo Stato argentino, che allo Stato italiano. Ci renderemo conto che nè l’uno nè l’altro, hanno una politica per mettere in rilievo le diversità che arricchiscono. Perché per oltre un secolo l’Argentina aperta agli immigrati di tutto il mondo e tra essi, nella stragrande maggioranza agli italiani, è stata diversa dal resto dei Paesi dell’America latina. Una diversità che era promossa e accettata e valorizzata dai governi argentini tra la fine dell’800 e inizi del ‘900 ma che è andata scomparendo quando quel flusso migratorio dal Mediterraneo verso il Plata si è chiuso. E perché l’Italia non è mai stata consapevole nè interessata a quel flusso, se non per favorire la partenza dell’eccesso di popolazione.

Così l’Argentina di oggi, al di là dei richiami folcloristici, non sembra interessata a mettere in risalto il contributo dell’immigrazione italiana. Basti l’esempio di piazza Colombo col monumento al Grande Genovese. I due principali quotidiani argentini, “La Nación” e il “Clarin” si sono occupati della chiusura della piazza al pubblico, decisa dalla “Casa Rosada”, in contrasto con la Città di Buenos Aires, alla quale appartengono piazza e monumento. Una questione sulla quale si è occupato varie volte la TRIBUNA ITALIANA, compreso un articolo, nel mese di novembre, di Walter Ciccione nel quale denunciava “l’appropriazione indebita” del nostro monumento. Nessuno dei due quotidiani argentini però, ha citato il fatto che il monumento a Colombo è stato donato dalla nostra collettività.

Certo, chi si è occupato del tema voleva mettere in risalto l’atteggiamento della “Casa Rosada”, ma se la nostra presenza fosse valorizzata, se la storia degli italiani al Plata fosse considerata parte della storia argentina, sicuramente i due cronisti avrebbero saputo che quella statua è importante per noi. E invece non lo sapevano.

Da parte sua anche l’Italia conferma il suo tradizionale disinteresse. Come ha fatto tagliando senza pietà (e senza accortezza) i fondi per la diffusione culturale nell’ultima finanziaria. Come si può insistere sulla cultura come carta di presentazione della politica italiana all’estero, se poi per la sua diffusione vengono negati i fondi?

Tocca a noi quindi impegnarci a far rivalutare l'epopea di milioni di italiani al Plata, se crediamo che veramente la nostra presenza sia un valore per l’Argentina e per l’Italia.

Altrimenti “nonno” diventerà una parola sempre più strana, nessuno si curerà se altri monumenti regalati da noi saranno “appropriati”, è così via, fino a quando qualcuno arriverà a dire che la presenza italiana in Argentina è stata insignificante o ininfluente… checché ne dica “el abuelo tano”

MARCO BASTI
marcobasti@tribunaitaliana.com.ar

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