Di quale rappresentanza hanno bisogno gli italiani dell’estero?

Da sempre gli italiani dell’estero hanno coltivato forme associative di vario tipo e hanno cercato di coordinare le loro forze per dare maggiore incisività alle loro azioni. Nelle varie epoche sono sorti così tra associazioni simili organismi di rappresentanza a vari livelli.
In Svizzera, giusto per limitare il campo a una realtà conosciuta dai lettori, il tentativo maggiormente riuscito fu la creazione del Comitato Nazionale d’Intesa (CNI) all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso. Fu un tentativo importante perché riuscì a rappresentare unitariamente tutte le principali forme associative. Si riteneva che una forza unitaria fosse in grado d’interloquire meglio e più efficacemente con le autorità italiane. Per oltre un decennio, il CNI ha svolto positivamente la sua funzione, riuscendo a superare le divisioni ideologiche delle varie componenti e proponendosi come valido interlocutore della rappresentanza diplomatica italiana in Svizzera. Uno dei successi principali del CNI è stato di aver contribuito a diffondere lo spirito d’intesa fra tutte le associazioni a livello cantonale e locale.
Dalla fine degli anni Ottanta hanno preso il sopravvento altre forme di aggregazione disciplinate con leggi dello Stato, in particolare i Comites (Comitati degli Italiani all’Estero) e il CGIE (Consiglio Generale degli Italiani all’Estero). Con l’istituzione ufficiale di questi organismi di rappresentanza si voleva garantirne la rappresentatività (attraverso elezioni) e l’efficacia (precisando obiettivi e mezzi). Oggi risultano discutibili sia l’una che l’altra, mentre è incontestabile che a livello generale sia andato perso quello spirito d’intesa che animava l’associazionismo degli anni Settanta e buona parte degli anni Ottanta.
Grazie alla possibilità riconosciuta dal 2001 agli italiani dell’estero di votare sul posto per corrispondenza, il sistema di rappresentanza tradizionale si è arricchito nelle due ultime legislature con l’elezione diretta di 12 deputati e 6 senatori scelti tra gli italiani residenti all’estero.
L’attuale situazione pone tuttavia non pochi problemi e sono ormai in molti a chiedersi se tutte queste forme di rappresentanza rispondano ad un reale bisogno e non generino piuttosto confusione e dispersione di energie. Non è facile rispondere con buoni argomenti a queste domande, ma ciò non significa che non siano legittimi i dubbi e le preoccupazioni al riguardo.
A titolo di stimolo ad un dibattito sereno e oggettivo, vorrei proporre alcune considerazioni che mi sembrano fondamentali, limitatamente alla Svizzera.
1. Tradizionalmente tutte le associazioni a carattere esclusivamente o prevalentemente migratorie nascono da un bisogno di tutela o di sviluppo di un progetto. Basti pensare alle prime organizzazioni del secolo scorso, da quelle di mutuo soccorso e di tipo assistenziale a quelle religiose, culturali, formative, sportive ecc. Di queste associazioni «storiche» pochissime sono ancora attive, per lo più nell’ambito della prima generazione. Sono inoltre vitali le associazioni a forte connotazione politica e con referenti precisi in Italia, e alcune associazioni regionali, nella misura in cui intrattengono stretti rapporti con le Regioni, da cui ricevono talvolta cospicui finanziamenti. Altre forme associazionistiche hanno caratteristiche molto particolari e incidono in misura assai limitata sull’insieme della collettività italiana. Domanda: sussiste per questo tipo variegato di associazionismo un bisogno di rappresentanza a livello consolare, regionale o nazionale?
2. Oltre all’elezione diretta dei 12 deputati e 6 senatori, gli italiani dell’estero eleggono in ogni circoscrizione consolare un certo numero di rappresentanti che costituiscono il Comites. Questo organismo di rappresentanza, dice la legge, ha unicamente compiti consultivi nei confronti del responsabile consolare. In particolare, hanno il compito di promuovere «opportune iniziative nelle materie attinenti alla vita sociale e culturale, con particolare riguardo alla partecipazione dei giovani…». Quanti Comites, almeno in Svizzera, riescono a svolgere con successo questa funzione? Quanto influisce sui risultati il tipo di rappresentanza (essenzialmente politica) di questi organismi? Non basta affermare, come è stato detto in una recente riunione dell’Intercomites (una sorta di organismo superiore di coordinamento e di sostegno dei Comites, di cui per altro ben poco si sa!) che «questi soggetti istituzionali (…) continuano a svolgere un ruolo insostituibile e sussidiario della presenza diplomatica italiana; ovunque rappresentano sul territorio un baluardo inamovibile nella vita delle nostre comunità, nonostante la declinante credibilità che sta intaccando l’immagine del nostro Paese». Davvero i Comites si sentono indispensabili e così efficaci? Quante persone, all’infuori dei diretti interessati possono sottoscrivere affermazioni del genere? E’ giusto che un organo consultivo si sia trasformato, di fatto, in organismo politico?
3. Circa il CGIE i dubbi sull’opportunità di mantenerlo in vita sono stati espressi da molti, fra l’altro da alcuni onorevoli eletti all’estero. Solo i diretti interessati, in verità non tutti, sembrano non avere dubbi, ma anch’essi fanno fatica a difendere un organismo che è stato ormai superato dall’elezione diretta dei rappresentanti politici degli italiani dell’estero. Questa affermazione non avrebbe valore se il CGIE fosse una sorta di organismo tecnico di esperti nelle varie materie che riguardano l’emigrazione. In realtà il CGIE è divenuto sempre più un organismo politico e i suoi membri sono eletti o nominati (in una forma discutibile) non tanto per le loro competenze quanto in base allo schieramento politico di appartenenza. Risulta dunque legittima la domanda: di quanti organismi politici hanno bisogno gli italiani dell’estero, a prescindere dal costo non irrilevante per il contribuente italiano di questa doppia rappresentanza?
4. Gli italiani dell’estero hanno salutato qualche anno fa il diritto di voto per corrispondenza come il riconoscimento di un diritto costituzionale fino ad allora negato o comunque fortemente limitato. Il legislatore è andato addirittura oltre, riconoscendo agli italiani fuori dei confini nazionale non solo il diritto di voto per corrispondenza, ma anche il diritto di scegliersi i propri rappresentanti tra i residenti all’estero. Senonché, anche sul diritto di voto all’estero sono sorti dubbi, non tanto sulla sostanza quanto piuttosto sulle modalità del suo esercizio. Data la complessità della materia, preferisco tuttavia affrontarlo in altra occasione, fermo restando che anche in questo caso i problemi sorti prima durante e dopo le elezioni non possono essere elusi.
Resta aperta soprattutto la domanda: di quale rappresentanza (politica) hanno bisogno gli italiani dell’estero? Esistono alternative alle forme attuali, alla luce soprattutto delle esigenze di trasparenza, rappresentatività, efficacia manifestate ormai in tutte le parti del mondo?

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