INFANZIA E ADOLESCENZA: esperienze di intervento analitico e di recupero minorile

La tecnica del colloquio in psicanalisi è un lavoro molto razionale, una prova generale per il terapeuta, attraverso cui avviene un incontro di entità e un confronto quindi di differenze, anche a livello intergenerazionale.

Generalità del colloquio

Nell’ambito del setting psicanalitico, occorre individuare le linee evolutive e dinamiche del processo adolescenziale. Sussistono diverse fasi di sviluppo, come il passaggio dal gruppo amicale infantile alla cerchia dei coetanei e adulti, l’ingresso nella sessualità matura, l’ampliamento del campo cognitivo verso nuove forme di pensiero, che Piaget individua nella fase delle operazioni formali, in cui si formulano ipotesi.
L’età adolescenziale presenta conflitti di sviluppo e crisi. Secondo Freud e Erickson si possono individuare elementi di psicopatologia nelle manifestazioni estreme di trasgressione e nelle autopunizioni corporali, che denotano difficoltà nel trovare un’identità definita con conseguenti atteggiamenti nevrotici, sintomi psicotici, casi borderline. Il primo colloquio con l’adolescente presuppone una semeiotica medica, con anamnesi del caso, conseguente esame obiettivo e la predisposizione di un tempo interno e esterno per la maturazione e l’introiezione del cambiamento, per conquistare una personale autonomia, con l’uscita dal mondo dell’infanzia.
Holding sostiene l’importanza di costruire un campo relazionale con l’analista in cui raccontarsi.
I disturbi emotivi e caratteriali sono spesso derivanti dalla lotta tra dipendenza e indipendenza/autonomia. Il tema della crisi adolescenziale è una vasta terra di mezzo, una terra di nessuno in cui il soggetto non è bambino né adulto.
Nell’ambito del setting si sviluppano situazioni di mutismo ostile o pseudostupidità, atteggiamenti voluti dal soggetto in cura per denotare la squalifica della potenzialità relazionale, in un comportamento distruttivo da parte del paziente. Si avverte un ripiegamento narcisistico con distanze relazionali che sanciscono l’insorgere di disturbi psicotici con arroganza provocatoria. In questa situazione il medico analista deve instaurare un rapporto di empatia per l’elaborazione della crisi. Le famiglie appaiono sempre meno autoritarie e molto disorientate, senza punti di riferimento. I genitori spesso sono mediatori con i CPS (centri psicosociali) rientrando in uno schema di approccio sistemico/familiare. Nei CPS o in altri servizi pubblici risultano importanti la valutazione e l’analisi di richiesta di supporto. Gli operatori devono gestire un buon controllo del controtransfert e dell’aggressività nel soggetto in crisi. Il nucleo familiare è un sottosistema emotivo in cui i modelli di relazione sono trasmessi tra generazioni, di cui l’operatore riabilitativo deve prendere coscienza.

Una normale solitudine

Si prendono in esame bambini a rischio di sofferenza psichica, in contesti familiari deprivati di affettività o con problemi. Risulta necessario individuare i segnali precoci di un’evoluzione a rischio sul piano comportamentale e nell’ambito della sfera emotivo-cognitiva e dell’apprendimento in particolare.
Il rischio di disagio può insinuarsi nei genitori quali portatori di deficit, di sintomatologie ansiogene, di un grado d’istruzione molto basso o totalmente assente, di problematiche occupazionali e difficoltà di inserimento a livello sociale. La resilience è il fenomeno insito nelle capacità individuali di mantenere un discreto livello di adattamento in condizioni esistenziali sfavorevoli.
Bronfenbrenner definisce effetti moderatori le influenze derivanti dall’interazione di variabili personali e ambientali (conflittualità intrafamiliare).
La famiglia possiede una priorità come luogo dove si realizza un modello di costruzione sociale, in parte differente dalla realtà effettiva. La famiglia ha uno statuto sociale e simbolico.
I bambini definiti “casi sociali” spesso si trovano senza referenti parentali primari: sono privi di famiglia. La famiglia è anche un concetto spaziale (dal greco tizemi, fissare), un luogo dove stare. Lo scopo delle comunità alloggio è tenere legati i minori ad un territorio e contesto d’appartenenza, senza eccessiva istituzionalizzazione. Il disagio dei bambini ospitati è l’esito di interazione tra variabili nella realtà sociale, culturale, interpersonale, individuale. La dichiarazione dei diritti del bambino promulgata dall’ONU nel 1959, sanciva il diritto all’educazione, all’istruzione, alla sicurezza e, soprattutto, il diritto di avere una famiglia, per cui i coniugi hanno doveri ben precisi ed imprescindibili rispetto ai figli.
La comunità alloggio è comunque organizzata secondo uno stile di vita più professionale che si discosta dal contesto affettivo del nucleo familiare.
I modelli di vita sono comunque sempre basati sul rispetto ed il sostegno reciproco. La comunità deve costituire comunque un punto di passaggio transitorio e non una sistemazione definitiva, anche se i “casi” ospitati hanno maturato forti e crudeli esperienze di discontinuità, di rifiuto e abbandono nei rapporti con le figure parentali. In comunità vige una determinata scansione di regole attraverso categorie spazio-temporali, per un fine terapeutico. La dinamica educativa e formativa all’interno delle istituzione si orienta nel favorire lo sviluppo della consapevolezza di sé e la presa di coscienza nella fiducia nelle personali capacità per costruire un’ identità positiva non più considerata “caso sociale”. Il sé del ragazzo o bambino si consolida e si organizza nel corso delle interazioni con altri, secondo modalità autoreferenziali, per cui l’”altro” è lo specchio di sé, oltre il sé. Il primo obiettivo nei progetti educativi consta nell’autonomia, nel raggiungere indipendenza ed autosufficienza, maturando l’implicita capacità di stare da soli e riconciliarsi con le figure parentali dell’infanzia per costruirsi un’identità positiva. Forse diventare adulti è un problema di normale solitudine.

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