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Gli italiani dell’estero e il futuro dell’Italia

Sulla Prima Conferenza dei giovani italiani nel mondo, tenutasi a Roma dal 10 al 12.12.2008, è calato il silenzio. Nessuno ne parla più. Se vi faccio riferimento è perché uno dei temi trattati mi pare degno di essere ancora dibattuto: quello dell’identità dei giovani e in generale degli «italiani all’estero» (ma forse sarebbe più appropriata l’espressione «italiani dell’estero»).
L’«identità nazionale» figurava tra i cinque temi principali della Conferenza e giustamente, in apertura dei lavori, il Ministro degli esteri Frattini aveva sottolineato che questa «è la questione centrale che alimenta anche tutte le altre: cosa vuol dire sentirsi italiani oggi, per voi che vivete fuori dell’Italia». Lo stesso Frattini aveva suggerito una risposta dicendo che «voi dovete sentire l’orgoglio di appartenere ad un’Italia che è cambiata. Che vi dovete ormai sentire parte di un sistema allargato e coordinato. Che noi guardiamo a voi come ad un patrimonio italiano che aiuta l’immagine italiana a crescere». Ma l’identità non può consiste in un «dover sentire».
Il tema è stato sicuramente dibattuto, tanto è vero che la Conferenza ha approvato un documento finale intitolato «Identità italiana e multiculturalismo», ma anche leggendo attentamente questo testo, non emerge in modo chiaro come realmente questi giovani italiani all’estero o, meglio, dell’estero, sentano e vivano la loro «identità italiana».
Mi sembra pertanto utile aprire un dialogo con i lettori alla ricerca di questa «identità».
Senza dare nulla per scontato, credo che per una discussione seria si debba tuttavia sgomberare subito il campo sia da alcune immagini vecchie degli «italiani all’estero» e sia dall’enfatizzazione di alcune recenti visioni evidentemente esagerate.
Tra queste ultime credo che si debba scartare, per esempio, quella avuta dall’on. Di Biagio, deputato PdL eletto all’estero, per il quale «i giovani italiani all’estero sono la speranza e il futuro dell’Italia». Ma davvero i giovani italiani all’estero si sentono il futuro dell’Italia? O potranno mai esserlo?
Tra le visioni vecchie da abbandonare, perché decisamente superate, vi sono tutte quelle che consideravano e in parte ancora oggi considerano le comunità italiane all’estero una sorta di «diaspora italiana» dominata dal desiderio del ritorno come il popolo di Sion deportato in Babilonia. Altre visioni, meno bibliche, consideravano e considerano gli italiani all’estero semplici «espatriati» destinati prima o poi a tornare dopo un periodo più o meno lungo di lavoro all’estero. Secondo queste visioni, è logico che lo Stato debba esercitare nei confronti dei propri cittadini lontani una specie di «protettorato», a fini di tutela e di promozione, almeno nella misura in cui rappresentano una risorsa e possono fornire un contributo alla patria.
Per il passato, a titolo di esempio, mi sembra emblematico un intervento alla Camera del deputato comunista G. Pellegrino, che nel 1963 interpellava così il Ministro degli esteri in merito all’espulsione dalla Svizzera di alcuni connazionali accusati di propaganda comunista: «Le chiedo, onorevole ministro: i lavoratori italiani in Svizzera sono o no dei cittadini del nostro Paese, con tutti i doveri e i diritti che ne conseguono? (…) I cittadini varcando le frontiere dello Stato italiano non lasciano dietro di sé il proprio cuore e il proprio cervello. (…) Non lo lasciano alla frontiera come un vile contrabbando di cui debbano disfarsi per non incorrere in sanzioni. (…) Teniamo presente che l'aspirazione degli emigrati è quella di ritornare in patria». Nulla da obiettare. Quella era l’aspirazione dei migranti e tutti, politici e no, la pensavano più o meno alla stessa maniera.
Altri tempi? Eppure quella visione non è del tutto tramontata. Cito, ancora a titolo di esempio, alcuni passaggi di un intervento di pochi giorni fa di M. Schiavone, esponente del PD in Svizzera (l’appartenenza alla stessa famiglia politica dell’on. Pellegrino è puramente casuale), che in polemica col segretario dei socialisti italiani in Svizzera G. De Bortoli scriveva: «A scanso di equivoci ci tengo a ribadirlo, perché ne sono convinto: gli italiani all’estero non costituiscono né una riserva indiana, tanto meno sono soggetti giuridici e civili con un’autonomia limitata, ma sono e saranno dei cittadini italiani a pieno titolo, residenti in Paesi diversi dal loro luogo natio, e come tali vanno rispettati e presi in considerazione per lo straordinario apporto che danno al nostro Paese e come tali sono soggetti di diritto anche se le loro rivendicazioni e le loro battaglie, come afferma De Bortoli, sono scontate e a rischio di inutilità».
Sembrerebbe che dall’epoca dell’on. Pellegrino a oggi la situazione migratoria non sia per nulla cambiata. Eppure, per poco che si conosca la storia dell’immigrazione in Svizzera, è evidente che da allora la tipologia della collettività italiana in questo Paese è radicalmente cambiata; che l’ondata d’immigrati degli anni ’50 e ’60 è uscita ormai dal mercato del lavoro e rientrata definitivamente in Italia o stabilita stabilmente in questo Paese; che gli italiani della seconda e terza generazione (nati e cresciuti in Svizzera) costituiscono già attualmente la maggioranza della popolazione attiva italiana; che la collettività italiana in Svizzera non è più Roma-dipendente come una volta.
Osservando poi i giovani in particolare, si vede benissimo che per quanto possano sentirsi italiani, in realtà ben poco conoscono dell’Italia e del «sistema Italia» e, soprattutto, vivono, studiano, lavorano e pensano come i loro coetanei svizzeri perché questa è l’integrazione.
Probabilmente, nemmeno i giovani partecipanti alla Conferenza di Roma del dicembre scorso hanno individuato la loro identità meglio del Presidente della Repubblica Giorgio Napoletano, il quale, nel salutarli, disse: «Lasciate che vi rivolga la più semplice esortazione: siate buoni cittadini nei Paesi che vi hanno accolto perché anche così voi fate onore all'Italia; e siate buoni italiani anche cercando di seguire l'evoluzione del nostro Paese, i suoi progressi e le sue difficoltà. Coltivate la vostra italianità non solo come antica memoria famigliare ma come condivisione sempre viva delle sorti della vostra patria d'origine».
Sarebbe utile, a questo punto, che soprattutto i giovani si esprimessero al riguardo. Il dialogo è aperto. A tutti Buon Anno.
Giovanni Longu
Berna 12.01.2009

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