Un articolo di Alain Gresh sul perché è prossima la fine dell’impero americano

(da Le Monde Diplomatique, Il Manifesto, Nov. 08)

dossier
All'alba di un secolo post americano
L'impero americano conosce lo stesso declino già vissuto dal suo predecessore britannico? È la domanda che si pone lo storico Eric Hobsbawm (leggere pagina 17). Il crepuscolo di Wall Street – simbolo della dominazione finanziaria degli Stati uniti – l'ascesa economica e finanziaria della Cina – che ha saputo utilizzare la divisione internazionale del lavoro per iniziare uno sviluppo autonomo – i forti movimenti di sinistra in America latina (leggere pagine 14 e 15) o l'affermazione della diplomazia indiana (leggere pagina 16) testimoniano, a vario titolo, lo sconvolgimento delle relazioni internazionali. Al mondo unipolare e dominato dall'Occidente, si sostituisce una nuova geopolitica caratterizzata dal moltiplicarsi di protagonisti autorevoli. Gli stati in primo luogo.
di ALAIN GRESH
Alcune notizie raccolte dai giornali durante l'estate 2008, poco prima che irrompesse l'uragano che sta devastando il pianeta finanziario: il numero di internauti cinesi ha superato quello dei loro omologhi americani e gli Stati uniti non rappresentano ormai che il 25% del traffico della Rete, mentre erano più della metà dieci anni fa; i tentativi di rianimare il ciclo di Doha sui negoziati commerciali internazionali sono falliti, soprattutto per il rifiuto di India e Cina di offrire in sacrificio i loro agricoltori, già impoveriti sull'altare del libero scambio; la Russia ha difeso i suoi interessi nazionali in Caucaso, nel corso della crisi georgiana, a dispetto delle velleitarie proteste di Washington.
Si tratta di notizie diverse, tra tante altre, che già testimoniano di una ricomposizione nelle relazioni internazionali: la fine dell'egemonia occidentale che si era imposta nella prima metà del XIX secolo. L'attuale cedimento del sistema finanziario non può che accelerare il ripiegamento occidentale. «Fine dell'arroganza», titolava il settimanale tedesco Der Spiegel, il 30 settembre, con questo sottotitolo: «L'America perde il suo ruolo economico dominante». Per una di quelle ironie di cui la storia è maestra, tutto questo avveniva meno di due decenni dopo la disfatta del «campo socialista», guidato dall'Unione sovietica, e l'apparente trionfo dei principi dell'economia liberista. Profetizzare, è sempre pericoloso. Nel 1983, due anni prima dell'ascesa di Mikhail Gorbaciov al Cremlino, Jean-François Revel prediceva la fine delle democrazie, incapaci di lottare contro «il più temibile dei loro nemici esterni, il comunismo, variante attuale e modello compiuto del totalitarismo (1)». Qualche anno dopo, Francis Fukuyama annunciava la «fine della storia», con il trionfo assoluto del modello americano-occidentale… Dopo la prima guerra del Golfo (1990-1991), molti osservatori vedevano l'alba di un XXI secolo americano.
Quindici anni più tardi, si fa strada un altro vaticinio, più vicino, sembra, alla realtà: entriamo in un «mondo post americano (2)». Come riconosce il Libro bianco sulla difesa e la sicurezza nazionale, adottato dal governo francese nel giugno 2008, «il mondo occidentale, cioè essenzialmente Europa e America, non è più il solo detentore dell'iniziativa economica e strategica nel senso in cui lo era ancora nel 1994 (3)».
Fine dell'egemonia occidentale Il mondo sarà multipolare? Senza dubbio gli Stati uniti manterranno, ancora per molti anni, un ruolo preminente, e non solo sul piano militare. Dovranno tuttavia tener conto dell'emergere di centri di potere a Pechino e a Nuova Delhi, a Brasilia e a Mosca. L'insabbiamento dei negoziati della Organizzazione mondiale del commercio (Wto), le difficoltà create dalla crisi del nucleare iraniano, così come le peripezie dei negoziati con la Corea del Nord confermano che gli Stati uniti, anche alleati con l'Unione europea, non sono più in grado d'imporre il loro punto di vista e hanno bisogno di altri partner per risolvere le crisi. Si potrebbero aggiungere alle nuove potenze tutta una serie di attori, ricordati, nella sua descrizione di un «mondo non polare (4)», da Richard Haass, un ex alto responsabile nell'amministrazione Bush (padre), poi al dipartimento di stato e oggi presidente del Council on Foreign Relations (New York). Enumera, senza ordine, l'Agenzia internazionale dell'energia (Aie), l'Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Ocs) (5), l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e le organizzazioni regionali; città come Shanghai o São Paulo ; i media satellitari, da Al Jazeera a Cable News Network (Cnn); le milizie, da Hezbollah ai taleban; i cartelli della droga, le organizzazioni non governative… E conclude: «Il mondo attuale vede sempre più un potere suddiviso piuttosto che una concentrazione di potere».
Comunque sia, gli stati di cui si era previsto il crollo sotto i colpi della globalizzazione vogliono il loro posto al sole. Cina, India, Russia, Brasile manifestano le proprie ambizioni e contestano un ordine internazionale che li marginalizzava. Altri paesi con aspirazioni più limitate, dall'Iran al Sudafrica passando per Israele, le nazioni sudamericane, l'Indonesia, difendono con determinazione i loro interessi «egoistici».
Nessuno di questi stati è animato da un'ideologia globale, come lo era l'Unione sovietica. Nessuno si presenta come un modello alternativo.
Tutti, chi più chi meno, hanno accettato l'economia di mercato. Ma nessuno intende transigere sui propri interessi nazionali. Ciascuno si batte prima di tutto per il controllo delle materie prime minerali, diventate più rare e più costose -soprattutto petrolio e gas – e per salvaguardare la capacità di nutrire la popolazione, con una produzione agricola insufficiente e minacciata dal riscaldamento climatico. In secondo luogo, difendono i propri interessi geopolitici, fondati su una visione politica e su una lunga storia: Taiwan e Tibet per la Cina; Kashmir per l'India e il Pakistan; Kosovo per la Serbia; Kurdistan per la Turchia. Questi conflitti non si sono dissolti in una felice globalizzazione – al contrario, mobilitano più che mai ampie masse e sono lontani dallo spegnersi.
Basta una rapida occhiata a una carta geografica del mondo, per vedere che la maggior parte delle tensioni si dispiega attorno ad un «arco di crisi» che va, secondo il Libro bianco, dall'Atlantico all'Oceano Indiano. I suoi redattori mettono in guardia contro «il rischio, nuovo, di una connessione dei conflitti [che] si delinea, tra il Vicino e il Medio oriente e la regione del Pakistan e dell'Afghanistan.
L'esistenza di programmi, in genere clandestini, di armi nucleari, chimiche e biologiche aggrava il pericolo, mentre i paesi di queste regioni acquisiscono in gran numero, più o meno apertamente, capacità militari basate su vettori aerei e missili. La destabilizzazione dell'Iraq, diviso in comunità rivali, rischia di estendersi al Medio oriente. L'instabilità in questo arco geografico può colpire direttamente o indirettamente i nostri interessi. I paesi europei sono presenti militarmente, a vario titolo, in Ciad, Palestina, Libano, Iraq e Afghanistan. In queste condizioni, l'Europa e la Francia saranno probabilmente chiamate, in futuro, ad un impegno ancora maggiore in tutta la zona, per prevenire e risolvere le crisi (6)».
Un «arco di crisi», che va dall'Atlantico all'Oceano Indiano Un'analisi molto simile a quella della maggioranza degli strateghi americani, che Nicholas Burns, un alto responsabile del dipartimento di stato, riassume così: «Dieci anni fa, l'Europa era l'epicentro della politica estera americana. (…) Oggi, tutto è cambiato. (…) Il Vicino oriente occupa per il presidente [George W.] Bush, per il segretario di stato [Condoleezza] Rice, e occuperà per i loro successori, il posto che era dell'Europa per le amministrazioni che si sono succedute nel XX secolo (7)». Il fatto che la regione racchiuda la maggior parte delle riserve petrolifere del mondo, nel momento in cui il corso del barile resta molto alto – nonostante il recente crollo – , contribuisce ad aumentare il carattere strategico del «Grande Medioriente».
Così si spiega la concentrazione, senza precedenti dalla fine della seconda guerra mondiale, di truppe occidentali nella regione, dall'Iraq al Ciad, dall'Afghanistan al Libano. Inserendo tutti questi conflitti nel quadro della loro «guerra contro il terrorismo», gli Stati uniti hanno contribuito alla creazione di un'«internazionale della resistenza», internazionale spesso composita, divisa, non unita nel profondo da nulla se non dall'opposizione all'egemonia americana.
La resistenza si manifesta anche nel settore cruciale dell'economia.
Contrariamente alle crisi precedenti (asiatica, russa, ecc.), l'attuale tempesta finanziaria comporta la marginalizzazione di organizzazioni internazionali quali il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale. All'inizio del millennio, molti paesi – Russia, Tailandia, Argentina, Brasile, Serbia, Indonesia, ecc. – avevano deciso di rimborsare in anticipo il loro debito al Fmi (8) per liberarsi dagli obblighi imposti dagli organismi internazionali.
Il «consenso di Washington (9)» sarà sostituito dal «consenso di Pechino»? Quest'ultimo si riassumerebbe, secondo il suo inventore, l'economista Joshua Cooper Ramo, in tre teoremi (10) che definiscono il modo in cui un paese del Sud può collocarsi sulla scacchiera mondiale: l'accento posto sull'innovazione; la necessità di tener conto non solo della crescita del prodotto interno lordo (Pil), ma anche della qualità della vita e di una certa forma di uguaglianza che eviti il caos; infine, l'importanza accordata all'indipendenza e all'autodeterminazione nelle decisioni e il rifiuto di lasciare ad altri (in particolare alle potenze occidentali) la possibilità di imporre il loro punto di vista.
Questa visione ha sollevato molti dibattiti e varie critiche (11) – per esempio circa il fatto di chiedersi se la Cina offra veramente un «nuovo modello», considerato che lì le disuguaglianze aumentano e che ha accettato di inserirsi nella globalizzazione. Ma essa permette di capire che, come non mai dalla decolonizzazione, i paesi del Sud hanno la possibilità di condurre politiche indipendenti, di trovare partner – sia stati che imprese – non allineati sulla visione di Washington. Si tessono nuove relazioni, come provano i vertici Cina-Africa o la riunione, del 26 settembre a New York, dei ministri degli affari esteri del Bric (Brasile, Russia, India, Cina). Alcuni paesi possono decidere i loro piani di sviluppo, senza passare sotto le forche Caudine del fu «consenso di Washington».
Implicazioni securitarie del riscaldamento del pianeta Un'altra trasformazione importante mina l'architettura geopolitica del mondo. Il 17 aprile 2007, per la prima volta, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ha tenuto una riunione dedicata alle implicazioni politiche e securitarie del riscaldamento del pianeta.
Questa dimensione fa ormai parte integrante delle riflessioni strategiche in vari paesi, dagli Stati uniti alla Francia o all'Australia (12).
Senza entrare nei dettagli, le condizioni estreme colpiranno i raccolti alimentari, favoriranno lo sviluppo delle epidemie; e l'innalzamento delle acque creerà milioni di rifugiati ecologici – 150 milioni nel 2050, secondo alcune stime – , il che inasprirà la lotta per la divisione dei territori, in quanto la scomparsa di atolli o isole ridurrà l'estensione delle zone economiche esclusive (Zee) (13). Quanto alla corsa dei prezzi dei prodotti alimentari, essa mette in pericolo la stabilità di molti paesi. Ormai, con l'affermarsi di una molteplicità di vie di sviluppo, con la multipolarità, non è solo il predominio economico dell'Occidente ad essere contestato, ma anche il suo diritto a decidere cosa sia il Bene o il Male, a definire il diritto internazionale, a intromettersi negli affari del mondo in nome della morale o del diritto umanitario.
L'ex ministro degli affari esteri francese, Hubert Vedrine, spiega che l'Occidente ha perso il «monopolio della storia», il monopolio della «grande narrazione». La storia del mondo, inventata due secoli fa, si riassumeva nel racconto dell'ascesa e della superiorità dell'Europa.
La strada verso la multipolarità può essere percepita come una possibilità di avanzare verso un vero universalismo. Ma talvolta suscita anche un riflesso di paura in Occidente: il mondo sarebbe sempre più minaccioso, «i nostri valori» sarebbero attaccati da tutte le parti, dalla Cina, dalla Russia, dall'islam; e bisognerebbe, sotto il patrocinio dell'Organizzazione del trattato del Nord Atlantico (Nato), iniziare una nuova crociata contro i barbari che cercano di «distruggerci». Questa visione delle cose, se non stiamo attenti, diventerà una profezia capace di autorealizzarsi.

note:

(1) Comment les démocraties finissent, Grasset, Parigi, 1983.

(2) Cfr. Fareed Zakaria, The Post-American World, W.W. Norton, New York, 2008; così come la critica di questo libro da parte di Hubert Védrine (Le Monde diplomatique, agosto 2008).

(3) Défense et sécurité nationale. Le Livre blanc, Odile Jacob – La Documentation française, Parigi, 2008, p. 34.

(4) «The age of nonpolarity: What will follow Us dominance» («L'era della non-polarità: ciò che seguirà alla dominazione degli Stati uniti»), Foreign Affairs, New York, maggio-giugno 2008.

(5) Creata ufficialmente nel 2001, l'Ocs riunisce Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizstan, Tagikistan e Uzbekistan. Si sono aggiunti, come osservatori, quattro paesi: India, Pakistan, Iran e Mongolia.

(6) Defense…, op. cit., p. 44.
(7)
(8) Leggere Jacques Sapir, Le Nouveau XXIe Siècle. Du siècle «américain» au retour des nations, Seuil, Parigi, 2008, in part. p. 164-170.

(9) Il «Consenso di Washington» o «Washington Consensus» è un'espressione creata nel 1989 dall'economista John Williamson. Indica sia le misure liberiste imposte agli stati in difficoltà dalle istituzioni internazionali (tra cui il Fmi) sia la crescente attenzione riservata – teoricamente – da queste ultime alla questione dei «diritti umani».
(10) Leggere The Beijing Consensus, The Foreign Policy Center, Londra, 2004.
(11) Cfr., ad esempio, Arif Dirlik, «Beijing consensus: Beijing «Gonshi».
Who recognizes whom and to what end?», http://anscombe. mcmaster.ca/global1/servlet/Position2pdf?fn=PP_Dirlik_BeijingConsensus
(12) Alan Dupont, «The strategic implications of climate change», Survival, The International Institute for Strategic Studies, Londra, giugno-luglio 2008.

(13) La Zee è stata definita dalla convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare (1982). Permette ad uno stato di esercitare un certo numero di diritti all'interno di una linea di 200 miglia marine (370 chilometri) al largo delle sue coste.
(Traduzione di G. P.) (ildialogo.org)

Martedì 06 Gennaio,2009 Ore: 20:28

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