Dopo il terremoto abruzzese

di Paolo Vannini

Il terremoto elettorale verificatosi in Abruzzo fornisce non pochi elementi di riflessione. Pur considerando le specificità locali, che esistono in qualsiasi tornata elettorale amministrativa e che possono avere il loro peso nel delineare il risultato finale, i riflessi in chiave nazionale sono di tutta evidenza. Il voto ha sancito un vincitore assoluto che è l’astensionismo; un vincitore senza trionfo, ovvero il Pdl; un’affermazione squillante dell’Idv di Di Pietro; un grande sconfitto, il Partito Democratico. Tutti elementi se vogliamo già prevedibili, anche se non in misura così marcata. L’astensionismo. In esso si è rifugiata gran parte dell’elettorato (quasi la metà), una buona fetta del quale nelle precedenti tornate aveva votato Pd o, comunque, centrosinistra. Sicuramente la bufera giudiziaria con l’arresto del precedente governatore, Ottaviano Del Turco, ha avuto un ruolo primario, ma non spiega tutto. Non spiega una più generale disaffezione dell’elettorato, che ha motivazioni diverse: il malcostume e la corruzione da un lato, il momento di grave crisi economica e le mancate risposte della politica dall’altra, ma anche l’insoddisfazione rispetto ai due grandi partiti per come sono venuti delineandosi e la mancanza di alternative ritenute credibili. L’unica alternativa premiata consistentemente è il partito di Di Pietro. Vero è che l’ex pm ha, proprio in Abruzzo, la sua massima forza ed esprimeva, inoltre, il candidato alla presidenza del centrosinistra, ma è certo che la furia giustizialista di Di Pietro continuerà a far crescere i suoi consensi anche in futuro; le europee del prossimo anno saranno l’occasione per misurare in modo più chiaro la sua forza e la debolezza del Pd. Il Pd, appunto, il grande sconfitto. Il partito di Veltroni esce da questa prova con le ossa rotte e conferma tutte le difficoltà ad affermarsi e ad essere avvertito come una credibile forza di governo riformista. In questo momento, il peso maggiore sembra essere esercitato dalla cosiddetta ‘questione morale’ di ‘berlingueriana’ memoria: dall’Abruzzo alla Campania e alla Basilicata, il Pd è finito nel mirino di molti magistrati con arresti eccellenti e gravi accuse, senza dimenticare il caos nel quale è piombato in una città simbolo come Firenze, fra inchieste giudiziarie e primarie ormai verso l’impazzimento. Difficile dire se questo sia il secondo tempo di Tangentopoli, quello destinato a colpire ciò che resta dell’unico partito rimasto illeso tre lustri fa, il Pci – Pds. Ciò che è certo è che, comunque vadano le inchieste, un dato resta incontrovertibile: il malcostume diffuso nella politica italiana del secondo dopoguerra non ha risparmiato neppure quello che è stato il più grande partito di opposizione, meno coinvolto di altri per ragioni obiettive (il non aver mai governato il Paese), ma contaminato per la sua parte dall’affarismo e dalla corruzione. Tanto più ciò vale in alcune regioni del centro Italia dove prima il Pci, poi il Pds – Ds e quindi il Pd ha governato ininterrottamente per sessant’anni. In questo caso, se non la certezza del reato, esiste la certezza del malcostume, di una mentalità incancrenitasi attorno a chi ha sempre avuto le leve del potere, spesso sapendo che – grazie alla forza dei numeri elettorali e della mancanza di un’alternativa credibile – nessuno gliele avrebbe tolte. Ma, come dicevamo prima, tale questione, sicuramente decisiva e che si delineerà meglio solo nei mesi a venire, non ci dice tutto della crisi del neonato Pd. Ci sono, a nostro avviso, altri due elementi che denotano i limiti di questa forza politica: il primo è che il Pd non è sufficientemente credibile in quanto partito di una moderna sinistra riformatrice. In tutti questi mesi lo si è visto muoversi secondo vecchie logiche del Pci – Pds e, quindi, dietro ‘all’onda’ studentesca a testa bassa contro la riforma della scuola, dietro la Cgil sulle questioni economiche, dietro Di Pietro (in parte al suo seguito, in parte da esso nascosto) sulla giustizia. Solo l’elezione di Obama ha dato un fremito lungo la schiena: sì, ma quello non è un candidato del Partito democratico italiano, bensì di quello americano, che è di tutt’altra pasta. Appunto, ma cos’è il Partito democratico? Non, come in America, un partito dei cosiddetti liberal, liberali di sinistra, ma la sommatoria di due vecchi apparati tutt’altro che liberali (a parte singoli esponenti di assoluta minoranza): cioè grossa parte dell’ex Pci – Pds e grossa parte della sinistra Dc. Del resto, di una tradizione laica, riformista, liberalsocialista tracce per lo più inesistenti. E allora questo vorrà pur dire qualcosa se il Pd non sfonda, non conquista quel tipo di elettorato ed anzi continua a perdere anche il suo. C’è una parte ancora non del tutto marginale di elettori privi di una propria ‘casa’ che o hanno temporaneamente scelto (spesso di controvoglia) il centrodestra, oppure si rifugiano nel non voto. In questo senso, una nota finale la merita un risultato tutt’altro che eclatante, ma di qualche significato nel voto abruzzese. I due simboli che in questa tornata si richiamavano al socialismo e liberalsocialismo – uno alleato col centrosinistra, l’altro col centrodestra – hanno ottenuto complessivamente oltre il 3,5%. Considerando che un’area laica e liberalsocialista è a tutt’oggi orfana di una forza politica che la rappresenti (ditemi cos’ha di laico e liberale il Popolo delle Libertà…) è forse il caso che ci si interroghi sul da farsi nel prossimo futuro. Molto modestamente proporremmo a tutti coloro che si riconoscono in questo filone ideale di pensiero di mettersi intorno ad un tavolo, esprimere alcune idee forti e iniziare un percorso comune. Per il momento, però, al di fuori dei due schieramenti. Un domani, se Pd e Pdl saranno qualcosa di molto diverso da ciò che sono oggi, il discorso potrà riprendere con uno dei due. Ma oggi no. Non ci sono le condizioni minime. Condizioni che invece esistono per riproporre un nuovo ‘polo’, a partire dalle prossime europee. Se resterà in vigore l’attuale legge proporzionale senza sbarramento, anche una piccola forza avrà un suo senso. Chi scrive non ha nostalgie proporzionalistiche, né smanie da forza politica residuale: fossimo negli Usa o in Inghilterra, il problema non si porrebbe e si potrebbe tranquillamente scegliere fra Democratici o Repubblicani da una parte e fra laburisti, conservatori o liberali dall’altra. Qui da noi, la scelta o di qui o di là non copre tutte le opzioni: i laici, i liberali, i liberalsocialisti semplicemente non ci sono. Non è il caso, una volta per tutte, almeno di provarci? (Laici.it)

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