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Una manovra di stile keynesiano

Crisi, è tempo di provvedimenti espansivi
Servono più sgravi fiscali selettivi e un massiccio piano di investimenti in opere pubbliche

E’ partita in piena regola la “damnatio memoriae” sulla finanza, ormai simbolo di tutti i mali, e tra poco arriveremo a vedere vignette come quelle che andavano di moda negli anni Trenta sugli avidi banchieri, magari ebrei, col cilindro. Peccato, perché andrebbe ricordato che con le dovute correzioni – accorciamento della leva, ristrutturazione dei ratios patrimoniali delle banche, fine dell’epoca delle acquisizioni solo a debito – il ruolo della finanza è imprescindibile, se inteso come mezzo e non come fine ultimo. Peraltro, si fa presto a dire “torniamo all’economia reale”, il mantra più gettonato delle ultime settimane.

Prendiamo il caso Italia: se la rigidità del mercato bancario ci ha salvato da subprime, derivati e affini, i ritardi decennali del tessuto imprenditoriale in questo caso non ci fanno da airbag. Gli ultimi dati della Banca d’Italia e dell’Istat – gli ennesimi negativi – mostrano infatti come non solo la crisi abbia già iniziato a contagiare le imprese per effetto della contrazione del credito, e che queste continuino a registrare un trend declinante per quanto riguarda gli investimenti, ma anche – ed è la cosa più inquietante – che il nostro capitalismo è da tempo refrattario all’innovazione di prodotto e di processo.

Ora, se è “normale” che in una fase di congiuntura come questa aumenti il numero delle imprese che chiuderanno bilanci in rosso (secondo l’indagine campionaria di Bankitalia nel 2008 saliranno dall’11% al 17% del totale), e se nessuno si può stupire che la fiducia degli imprenditori sia ai minimi termini – tanto che quasi la metà delle imprese pronostica una maggiore rarefazione del credito nel 2009 e dunque prevede di investire meno (nell’industria il numero di soggetti che taglierà gli investimenti sale dal 19,8% al 29,7%, nei servizi dal 17,7% al 24,8%) – ben diverso è scoprire che solo poco più di un quarto delle imprese italiane, per l’esattezza il 27,1%, nel triennio 2004-2006 ha introdotto nella propria attività un qualche tipo di innovazione tecnologica. Perchè questo significa che la scarsa propensione ad innovare – legata sia alle dimensioni (quelle con almeno 250 addetti sono per oltre la metà innovatrici), sia al tipo di attività economica (le imprese innovatrici sono state il 36,3% nell’industria in senso stretto, ma solo il 17,3% nelle costruzioni e, desolatamente, il 21,3% nei servizi) – in una fase di cambiamento epocale come questa si traduce in una minore capacità competitiva proprio su quel terreno di economia produttiva cui tutti si richiamano dopo lo tsunami finanziario.

Di fronte a questi dati, si capisce che provvedimenti d’emergenza basati sul solo principio di “più soldi a famiglie e imprese” rischiano di non essere affatto risolutivi. Ciò che serve, a questo punto, è invece una manovra espansiva mirata ad alcuni obiettivi di politica industriale e di infrastrutturazione (materiale e immateriale) del Paese. E qui, senza bisogno di nessuna Obama-mania, si studino le misure all’attenzione del Congresso Usa, una manovra di stile keynesiano da almeno 200 miliardi di dollari, composta da sgravi fiscali selettivi e da un massiccio piano di investimenti in opere pubbliche. Gli analisti di Moody’s stimano che per ogni dollaro pubblico così speso, il pil pro-capite ne guadagnerebbe uno e mezzo e l’erario incasserebbe 40 centesimi di maggiori entrate. Basterebbe copiare.

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