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Pensieri dalla Costa d’Avorio – Chi vincerà  le elezioni?

Il virus dell’HIV ha vinto ancora una volta le elezioni. Non c’è opposizione che tenga, l’HIV è salito sul gradino più alto. Ha fatto man bassa di anime ed è stato eletto all’unanimità “Presidente della Repubblica della Morte”. Il suo governo di alleanze trasversali con il partito della malaria e quello della tubercolosi detiene la maggioranza dei seggi.
Con l’acronimo HIV si intende il “virus dell’immunodeficienza umana” responsabile della sindrome dell’AIDS che sta per “sindrome dell’immunodeficienza acquisita”. In poche parole il virus dell’HIV può essere trasmesso da una persona infetta ad un’altra sana causando, in seguito, una serie di sintomi e segni clinici inquadrabili in una sindrome. Sembra certa la relazione tra il virus dell’HIV e la sindrome dell’AIDS, anche se alcuni studiosi mettono in dubbio tale nesso.
Esistono due ceppi del virus, ossia l’HIV-1 e l’HIV-2 dove il primo è il più diffuso e il più virulento. Il virus sopravvive in ambiente esterno per quasi due ore ed è ucciso dalla candeggina, dall’alcool a 70% oppure se viene esposto ad una temperatura superiore ai 60°C. E’ invece nel corpo umano che l’HIV trova il suo ambiente naturale.
Il virus é stato isolato in diversi liquidi biologici come il plasma, le secrezioni vaginali, lo sperma e il latte materno, e, in quantità ridotta nella saliva, nelle urine, nelle lacrime e nel liquido cefalorachidiano. Si è quindi giunti alla conclusione che i liquidi biologici implicati nella trasmissione dell’HIV sono essenzialmente il sangue, le secrezioni vaginali, lo sperma e il latte materno che contengono il virus in quantità sufficiente rispetto agli altri.
L’HIV può essere trasmesso tra gli esseri umani attraverso tre modalità. La prima e la più frequente è quella sessuale, ossia attraverso rapporti sessuali non protetti tra una persona infetta e una sana (sia tra eterosessuali che omosessuali). La seconda via è attraverso il sangue e i suoi derivati e coinvolge in particolar modo chi fa uso di droghe per via endovenosa e si scambia le siringhe, chi riceve trasfusioni di sangue infetto, chi utilizza aghi e strumenti non sterili per eseguire agopuntura, mesoterapia, tatuaggi o piercing, e infine gli operatori sanitari che si espongono accidentalmente e traumaticamente al sangue di un sieropositivo. L’ultima via di trasmissione è quella in cui una madre sieropositiva può trasmettere al figlio l’infezione sia durante le ultime settimane di gravidanza, sia nel corso del parto che in occasione dell’allattamento.
Una volta che il virus dell’HIV penetra nell’organismo di un essere umano è capace di distruggere alcune cellule del nostro corpo e in particolare i linfociti T-CD4 implicati nei meccanismi della risposta immunitaria. Il virus ha quindi come effetto più importante quello di abbassare le difese immunitarie dell’ospite (immunodepressione) favorendo così l’insorgenza di alcune gravi infezioni opportunistiche e di particolari neoplasie.
Si diviene sieropositivi (ossia quando il nostro corpo inizia a produrre anticorpi contro il virus) dopo 4-6 settimane dal contagio, ma si può trasmettere l’infezione anche prima di questo periodo anche se si è sieronegativi (il famoso e temibile “periodo finestra” in cui il soggetto infetto non è positivo al test, ma può trasmettere l’infezione). Invece, il lasso di tempo che intercorre tra l’essere divenuti sieropositivi e l’insorgenza di una o più infezioni “opportunistiche” (ossia infezioni causate da alcuni microrganismi che se presenti in un soggetto non immunodepresso non si comportano da patogeni) può durare anche diversi anni. Quando ciò avviene si entra in una fase sintomatica grave (AIDS conclamata) in cui il soggetto è colpito da particolari forme di polmonite, dalla tubercolosi, da certe micosi, da diarree e da alcuni tipi di tumore come i linfomi e il sarcoma di Kaposi. Le fasi terminali della malattia sono caratterizzate da un sopravvento delle suddette manifestazioni cliniche su di un paziente oramai completamente immunocompromesso e defedato.
La prognosi della persona sieropositiva dipende da un tempestivo inquadramento clinico e, quando vi è l’indicazione, da una corretta somministrazione delle terapie antiretrovirali che hanno come effetto principale quello di ritardare la replicazione virale, ma non quello di eliminare il virus. In poche parole, oggigiorno, l’AIDS è curabile, ma non guaribile. Vuol dire che il sieropositivo, se curato, può vivere più a lungo di chi non riceve alcuna terapia ritardando l’insorgenza dell’AIDS. Nonostante gli sforzi fatti e il fiume di denaro impiegato non esiste a tutt’oggi un vaccino contro l’HIV e probabilmente non sarà disponibile per molti altri anni.
Restano comunque molte ombre sull’origine del virus e di come si possa essere diffuso sul pianeta. Secondo alcuni studi sembra che il virus dell’HIV sia comparso in Africa centrale agli inizi del XX secolo quando alcuni uomini vennero a contatto con un virus animale chiamato SIV (virus dell’immunodeficienza della scimmia) contenuto nelle carni macellate di alcuni scimpanzé. Si ipotizza che il SIV si sia trasformato nell’HIV una volta passato dalla scimmia all’uomo. Alcuni localizzano l’epicentro della prima infezione nella metropoli di Kinshasa (capitale dell’attuale Repubblica Democratica del Congo). Da qui, grazie a una diffusione interumana su larga scala, il virus sembra essersi diffuso in tutto il mondo. Mentre in occidente la maggior parte dei sieropositivi si contano soprattutto tra le categorie cosiddette “a rischio” (tossicodipendenti, prostitute ed omosessuali), nei paesi in via di sviluppo le persone infette si ritrovano trasversalmente in ogni categoria comprese quelle a “basso rischio”.
Secondo i dati pubblicati dall’UNAIDS il numero di sieropositivi nel mondo ha superato i 33 milioni nel 2007 con un numero di decessi legati all’HIV pari a circa 2 milioni, mentre il numero di nuovi contagi è stato vicino ai 3 milioni. Il 67% dei sieropositivi (22 milioni) vive nell’Africa sub-sahariana, dove si concentra anche il 75% delle morti per AIDS.
Nell’anno 2007 la prevalenza dell’HIV in Costa d’Avorio, nella popolazione di età compresa tra i 15 e i 45 anni, si è attestata tra il 3,2 e il 4,5% (il tasso più alto in Africa occidentale assieme al Camerun e al Gabon), mentre in Botswana, Lesotho e Swaziland tale percentuale ha superato addirittura la soglia del 20%. Sempre nello stesso anno la prevalenza dell’infezione tra le donne gravide ha raggiunto l’8% in Costa d’Avorio.
Si stima che nel 2007 potessero esserci nel mondo circa 2 milioni di bambini sieropositivi di età inferiore ai 15 anni di cui il 90% in Africa sub-sahariana. La quasi totalità di questi bambini ha contratto l’infezione durante la gravidanza, il parto oppure l’allattamento.
Le donne rappresentano nel mondo il 50% dei sieropositivi, mentre tale percentuale raggiunge il 60% nell’Africa sub-sahariana. Si prevede, inoltre, che nel 2010 gli orfani per AIDS saranno oltre 20 milioni.
Nonostante in questi ultimi anni si è registrato un certo miglioramento nella sopravvivenza dei sieropositivi e nella diffusione dei farmaci antiretrovirali, la situazione resta ancora critica e appare probabile una sottostima dell’epidemia. Si calcola che in Africa sub-sahariana soltanto il 12% degli uomini e il 10% delle donne si è sottoposto al test per l'HIV. Infatti, resta preoccupante l’immenso serbatoio di sieropositivi non diagnosticati, ossia coloro che possono trasmettere l’infezione senza sapere di essere malati.
Da circa quattro mesi abbiamo ottenuto l’autorizzazione di poter effettuare presso l’ospedale di Anyama il test gratuito e rapido per l’HIV e da allora ci siamo veramente resi conto di come questa terribile infezione sta decimando l’Africa. Ogni giorno diagnostichiamo tre-quattro donne sieropositive e tra queste la maggior parte gravide. Proponiamo ogni volta alla donna di far eseguire il test anche al marito, ma molto spesso senza successo. La società rifiuta questa malattia e chi ne è colpito viene di solito stigmatizzato ed allontanato. Un tessuto sociale povero e smembrato come quello africano ancora non è in grado di affrontare nella giusta dimensione la problematica dell’AIDS. Ecco che coloro che ne sono colpiti vivono in solitudine la propria tragedia aspettando una fine quasi certa.
Una mattina come tante altre l’addetto al counseling pre-test (ossia la procedura che informa le donne che afferiscono al nostro centro sull’utilità di sottoporsi al test registrandone il consenso) bussa alla mia porta. Devo firmare la lettera che ogni donna diagnosticata positiva al test deve consegnare al dipartimento di “prise en charge”. Leggo il nome della malata e una scossa violenta percorre il mio corpo. Riconosco di chi si tratta leggendo le sue generalità. Il suo nome è Salimata, una ragazza di etnia djoula di appena 22 anni che seguo in consultazione prenatale da qualche mese. Moglie di un coltivatore di cola, si era sposata da quasi un anno. Ricordo ancora adesso la sua eleganza e i suoi tratti fini tipici di una delle più belle etnie africane. I suoi occhi grandi, scuri e allungati sormontavano un naso perfetto e delle labbra incantevoli. La sua testa allungata era adornata da un copricapo simile a un turbante che portava in ogni occasione. La pelle scura e lucida contrastava piacevolmente con i vestiti leggeri ed eleganti di color celeste o arancione. I suoi polsi erano circondati da bracciali d’argento e portava ai piedi sandali a punta chiusi sul davanti. Si era innamorata di un uomo di venti anni più grande di lei e non ascoltando i consigli dei suoi genitori aveva deciso di sposarlo. Suo marito lavorava nei campi tutto il giorno e solo all’imbrunire tornava a casa. Aveva preso l’abitudine di uscire dopo cena e quando rincasava ubriaco abusava di Salimata che dopo un paio di mesi era rimasta incinta. Solo quel figlio che cresceva in lei le dava la forza di andare avanti e ogni sera accarezzava il suo pancione aspettando terrorizzata che il marito tornasse da un momento all’altro. Il suo sogno d’amore era ben presto diventato un incubo. In occasione di ogni consultazione prenatale mi raccontava tutto quello che passava lasciando che una lunga lacrima che le rigasse il volto rattristito. Un giorno, senza dover troppo insistere, l’avevo convinta a fare il test per l’HIV.
Lunedì 11 agosto 2008, ore 12,30. Una certa Marthe, anni 55, chiede di vedermi. Da qualche minuto stringe tra le dita un foglio sgualcito che contiene la sua condanna: sieropositiva per il virus HIV-1. Non ci sono dubbi, ma quello che mi colpisce è la sua serenità nell’apprendere la notizia. Mi racconta che suo marito era morto da circa due anni dopo che era uscito di casa da cinque per andare a vivere con un’altra donna. Era morto di AIDS e aveva contagiato sua moglie qualche anno prima. Si diceva nel villaggio che quell’uomo andava con troppe donne e che si sarebbe prima o poi ammalato. Marthe aveva pianto la morte di suo marito, anzi era riuscita anche a perdonarlo. Ma da qualche giorno lei non si sentiva troppo bene. Era diventata debole e dimagriva a vista d’occhio. Poi una serie di attacchi di diarrea l’avevano buttata a terra e quando sembrava essersi ripresa una strana febbre e delle tumefazioni al lati del collo l’avevano assalita. I suoi figli volevano portarla ad Abidjan a farla vedere da qualche medico, ma lei, come se sapesse già tutto, aveva deciso di sottoporsi al test.
L’HIV si nasconde abilmente per anni sotto la pelle, scorre silenzioso nel sangue sino a quando decide di esplodere con tutta la sua potenza. Sega in due le gambe, squassa le visceri, prosciuga il corpo, inietta gli occhi di sangue, spacca i polmoni, in poche parole distrugge. Annienta e cancella interi gruppi e si diffonde a macchia d’olio.
Pietro Iovenitti
Abidjan, 10 novembre 2008
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