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Gelmini, non finisce qui.

di Alessandro Carbone

Mentre redigo queste righe il Senato italiano ha approvato il “decreto Gelmini” che attua interventi di riforma nella scuola primaria. Si tratta di un primo strumento di modifica, cui ne seguiranno a breve altri riguardanti le scuole secondarie e l’università, che mette in atto un piano di revisione del sistema scolastico italiano.
Sono, questi, giorni di grandi manifestazioni da parte sia del personale della scuola che degli studenti; il rischio, con queste righe, è di aggiungere altre voci a quelle di tanti manifestanti incrementando la confusione sul tema. Voglio per questo fare chiarezza e, prima di esprimere una valutazione, raccogliere gli argomenti per quanto possibile oggettivi nonché i dati di fatto relativi a questa vicenda. Mi sono fatto aiutare, in questo, dal Prof. Enrico Canestrelli, Dirigente della Scuola Italiana di Atene che, in un colloquio chiarificatore, mi ha fornito elementi utili al di là delle seppur comprensibili reazioni emotive.
L’iniziativa del ministro Gelmini è l’esecuzione di un mandato preciso e dai tempi contingentati dell’art. 64 dell’ultimo Documento di Programmazione Economica e Finanziaria che l’attuale governo ha congedato nel giugno scorso. L’articolo afferma la necessità di riqualificare i servizi educativi attraverso la riorganizzazione dell’apparato scolastico. Questa sistemazione deve avvenire, secondo il DPEF, attraverso l’aumento di un punto del rapporto tra docenti e alunni che, in Italia con l’uno a 11, è uno dei più bassi d’Europea, mediante la riduzione – di quasi un quinto – del personale ausiliario, tramite la flessibilità del personale docente, la revisione dei programmi scolastici e la riduzione degli orari curriculari. Si dà così mandato al ministro, in tempi alquanto stretti, di emanare i decreti relativi ai tre gradi dell’istruzione perché nel triennio a seguire tale riforma venga sostanzialmente compiuta.
Durante l’estate l’On. Gelmini ha avviato, dunque, un piano di programmazione per la realizzazione di quanto imposto dal documento. Nel dettaglio, il piano intende ridurre la spesa scolastica reinvestendo il 30% del risparmio sullo sviluppo professionale dei docenti e degli ausiliari, attivando altresì un meccanismo di premiazione basata sul merito professionale. Impone, inoltre, la razionalizzazione degli Istituti Scolastici già avviata nel ’98 dall’allora ministro Berlinguer e, a oggi, non ancora compiuta. Infine, propone il taglio delle ore scolastiche in modo che non vi siano più incomprensibili disparità di orari settimanali tra istituti licei e quelli tecnici/professionali. Le università, che in prospettiva dovrebbero essere trasformate in Fondazioni, devono affrontare un taglio finanziario e rivedere l’offerta dei percorsi di laurea in modo che formino adeguate conoscenze e competenze utili, un domani, al mercato del lavoro.
Il primo decreto, che riguarda appunto la scuola primaria, introduce le novità di cui tanto la stampa e l’opinione pubblica hanno discusso in queste settimane: il reintegro del maestro unico per ogni classe, la reintroduzione della valutazione degli alunni attraverso voti e non più giudizi, l’uso del voto di condotta che può compromettere la promozione dell’alunno, l’introduzione di ore didattiche sui temi della Cittadinanza e della Costituzione.
Non vi è dubbio che una riforma dell’ordinamento scolastico è necessaria e lo testimoniano gli svariati tentativi che ogni ministro dell’istruzione, appena incaricato, tende ad attuare. La riforma è tanto più necessaria dal momento che anche le ultime valutazioni fatte dall’OCSE testimoniano che, eccetto per le primarie, la scuola italiana si posiziona agli ultimi posti per quanto interessa l’apprendimento e le performance scolastiche degli studenti. È altrettanto vero che, se di una riforma così importante e delicata si tratta, questa va ragionata nei tempi e avviata coinvolgendo chi la scuola la fa quotidianamente. A tale proposito mi balzano all’occhio due questioni che, secondo me, offuscano la bontà di quelle scelte che possono anche mostrarsi opportune.
La prima riguarda l’occasione: la riforma Gelmini non è dettata da un’analisi dei bisogni formativi, dall’avvento di nuove pedagogie didattiche, dalla valutata inadeguatezza di alcuni percorsi scolastici. La riforma nasce dal mandato di un Decreto del Ministero dell’Economia e pertanto risponde esclusivamente, e non si premura neanche di nasconderlo, a logiche di efficienza economica e di risparmio. La seconda questione concerne lo strumento del decreto legge. Tale espediente normativo permette la propria “messa in onda” immediatamente, richiedendo solo successivamente la sua ratifica da parte del parlamento nei tempi previsti di 90 giorni. Si saltano così quelle che credo siano le pacate, dialettiche e democratiche procedure di un disegno legge avviato da una commissione parlamentare. Il decreto, infatti, “brucia” assolutamente i tempi, aggira il contenzioso delle camere parlamentari, ignora – non interpellandoli – gli attori e le parti che compongono il sistema scolastico. Va da sé che, anche in questo caso, tale fretta è cattiva consigliera, ma ciò assume un profilo ancor più doloso trattandosi dell’educazione scolastica degli studenti che, prima di essere gli uomini del domani, sono il prezioso patrimonio umano del nostro presente. La perentorietà e decisione espressa dal ministro potrà forse riorganizzare in tempi brevi il nostro sistema scolastico, razionalizzandolo, ma rischia di dare vita ad un riforma strabica che guarda all’educazione dei ragazzi per mettere a posto i propri conti economici.

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