Sulla scuola della Gelmini

I dati OCSE PISA, se analizzati ed esposti correttamente, offrono tre indicazioni, che operatori scolastici, studenti, genitori e tutte le persone preoccupate per la Scuola hanno ribadito in questo giorni di mobilitazione e di discussione.

Anzitutto, la nostra Scuola primaria registra ottimi risultati sull’analisi e comprensione dei testi scritti e orali e il grande buco, con l’abbassamento dei livelli qualitativi, si ha nella Scuola secondaria, iniziando da quella di primo grado. Questi risultati mettono in rilevo inoltre che esiste una Scuola italiana secondaria a due velocità, con un Nord agli stessi livelli degli altri Paesi OCSE e con un Sud in difficoltà e in ritardo.

Questa interpretazione dei dati avrebbe dovuto indurre il Governo a due considerazioni. In primo luogo a mantenere e potenziare la scuola primaria, che funziona bene. Se il modulo italiano delle tre maestre, che ruotano su due classi, è virtuoso, saranno semmai gli altri Paesi europei a dover guardare questa parte del nostro sistema per imitarlo, come già capita per la scuola elementare dell’Emilia Romagna. Secondariamente, se i dati indicano maggiori difficoltà per i livelli qualitativi delle scuole secondarie del Sud, problemi legati anche al particolare contesto sociale del Meridione d’Italia, non è utile adottare una disciplina indifferenziata per tutto il Paese. Sarebbe invece opportuno intervenire nelle regioni del Sud, accrescendo e non certo riducendo risorse e organici.
Come si vede, la critica al decreto legge del ministro Gelmini non risponde a logiche partitiche; i guasti al sistema scolastico italiano hanno tanti padri e di vario colore. La critica è di merito e, per così dire, tecnica. Da questo punto di vista, la trasversalità della protesta è un dato di fatto che dovrebbe far riflettere il governo e le forze politiche in genere.

Nel merito la contestazione s’incentra su diversi profili, da quello didattico-pedagogico a quello sociale e economico. Infatti, non è pensabile pretendere di migliorare il sistema eliminando gli insegnanti specializzati di lingua inglese dalle scuole primarie, sostituendoli con altri che, per l’insegnamento specifico della lingua straniera, dovranno seguire dei corsi da poche centinaia di ore. Così come non è ragionevole pensare di aumentare il livello della qualità delle lezioni accrescendo progressivamente il numero di alunni per classe. Si tratta di un dato intuitivo, ma che numerose sperimentazioni, americane (STAR) ed europee, hanno provato: con classi di pochi alunni questi migliorano, e addirittura in misura esponenziale migliorano quelli provenienti da contesti sociali degradati.

Sulla didattica è bene inoltre ricordare che il rapporto numerico tra insegnanti e alunni in Italia non è differente da quello di altri Paesi europei: spesso la diversità è solo apparente in quanto è data dal fatto che in quel rapporto compaiono anche figure d’insegnanti che in altri Stati non sono a carico del bilancio del Ministero della pubblica istruzione; inoltre, vengono conteggiati in Italia anche gli spezzoni di cattedre; infine nel nostro Paese vengono considerate tante piccole realtà locali, che certo fanno lievitare le statistiche e i costi, ma rappresentano una ricchezza sociale e culturale da mantenere. Infatti, si tratta di presidi sociali da tutelare come servizio pubblico ai cittadini anche in ossequio al fondamentale principio costituzionale di eguaglianza. Si consideri poi che nelle realtà urbane più grandi di queste aree esistono già classi con trenta o più alunni, situazioni difficili in cui è fisiologico l’abbassamento del livello qualitativo delle lezioni; quindi, preservando e difendendo le scuole dei piccoli centri, si limita la concentrazione degli alunni per classe nei centri maggiori, migliorandone la qualità.

Da ultimo ma non meno importante, il profilo sociale e economico. In Italia le risorse per l’istruzione sono andate diminuendo, in proporzione al PIL, a partire dal 1990, cioè si è impoverito uno dei settori strategici per la crescita del Paese. Gli sprechi vanno certo combattuti, ma non tagliando oltre 133.000 posti di lavoro, con un aumento della disoccupazione; si mettono così in grave difficoltà le famiglie di docenti che per anni hanno contribuito a sostenere, fra mille difficoltà, il sistema dell’Istruzione.

Agli operatori scolastici e agli insegnanti dev’essere riconosciuto un giusto ruolo sociale ed economico, a partire dal trattamento economico, che dal 1995 a oggi ha perso un potere d’acquisto del 21%, mentre quello della media dei Paesi OCSE è nettamente superiore. Ed è una vera e propria cannibalizzazione il sistema delle premialità agli insegnanti che rimangono in servizio, si badi, nel 2012, a danno dei colleghi che perdono il posto. Per di più i tagli del Governo, in questo momento, incrementano la paventata recessione economica a seguito della minore circolazione monetaria nel mercato. Nel Sud questo accentuerà la già drammatica situazione economica, data l’incidenza del pubblico impiego in queste regioni.

Come si vede, la protesta è ferma e decisa ma anche responsabile e propositiva. Si vuole che la riforma del sistema scolastico avvenga con una consultazione dei lavoratori del settore, con un dialogo che si fondi semplicemente sui principi fondamentali della Costituzione Italiana, e nello specifico sull’uguaglianza sociale, sul diritto al lavoro e all’istruzione.
*Insegnante di materie letterarie
da www.democraziaoggi.it e www.sardegnaeliberta.it

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