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Patrimonio immobiliare, costo o risorsa per il territorio?

di Michela Stentella

Un vero e proprio “censimento” degli immobili degli Enti locali, che consenta di capire quanti e quali beni non sono necessari alle funzioni istituzionali dell’ente di competenza, scegliendo di conseguenza per questi la strada della valorizzazione o della dismissione. L’art. 58 del Decreto legge 112/2008 (la cosidetta “Manovra d’estate”) è dedicato alla “Ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di Regioni, Comuni ed altri Enti locali” e prevede che l’organo di governo di ciascun ente, una volta individuati i beni da dismettere, stili un Piano delle Alienazioni immobiliari da allegare al bilancio di previsione.
Un obbligo e un’opportunità per gli Enti locali, spesso proprietari inconsapevoli di un patrimonio immobiliare che, scarsamente valorizzato, finisce per essere più un peso che una risorsa.
Abbiamo chiesto a Marco Dugato, professore di Diritto amministrativo e Diritto urbanistico nella Facoltà di Pianificazione del territorio dell’Università Iuav di Venezia e partner dello studio Lexjus di Bologna, di spiegarci qualche punto nodale della nuova norma.

“Per affrontare il tema della nuova normativa in materia di valorizzazione e alienazione del patrimonio immobiliare pubblico – sottolinea Dugato – bisogna partire dalla legge 244 del 2007 (la Finanziaria 2008), che contiene una norma relativa ai cosiddetti ‘Programmi unitari di valorizzazione’. Un passaggio significativo, perchè per la prima volta alle esigenze di cassa, che sono sempre state stringenti, vengono affiancate esigenze di valorizzazione intesa come aumento del valore, sia finanziario sia di utilizzo, del bene. Non viene previsto solo il solito sistema (elenco di beni utili e beni inutili, dismissione dei beni inutili e valorizzazione di quelli utili), ma anche uno strumento in grado di garantire una ricognizione del patrimonio a più livelli, locale e centrale. La vera novità è che viene inserita finalmente una norma che consente a questi Piani, a determinate garanzie e caratteristiche, di andare in variante agli strumenti urbanistici. In passato, ad esempio, molti beni in dismissione non sono stati venduti perchè rimanevano agganciati alla vecchia destinazione urbanistica e, per incidere sul vincolo urbanistico, sono necessari processi di variante lunghissimi e incerti. Il fatto di non sapere cosa si sarebbe potuto fare di quei beni non contribuiva di certo a renderli appetibili sul mercato.”

“La nuova norma, l’articolo 58 del Decreto legge 112/2008, fa tesoro di questa precedente esperienza, secondo me positiva, e soprattutto delle esperienze negative del passato, intervenendo su due elementi giuridici rilevanti: la natura del regime dei beni e la destinazione urbanistica. L’inserimento all’interno dell’elenco allegato al Piano delle alienazioni immobiliari ha, infatti, come primo effetto la variazione della classificazione giuridica di quei beni, che diventano immediatamente beni come gli altri, cioè disponibili. Questo è un elemento fondamentale. Poi, ancora una volta si è capito che è necessario, nel momento stesso in cui si fa un piano di dismissione, che il bene venga venduto non come vecchio bene pubblico, ma secondo la nuova destinazione, spiegando al mercato che cosa se ne potrà fare. L’inserimento nel Piano va in variante automatica degli strumenti urbanistici, cioè il bene ha una nuova destinazione che è immediatamente percepita dal mercato nelle sue potenzialità”.

Quindi è un giudizio positivo quello sulla nuova norma?
Ritengo sia una norma ben fatta, che lega in modo forte la vendita degli immobili allo sviluppo territoriale. Tuttavia, per capire se davvero avrà effetti positivi bisognerà aspettare anni. E personalmente, visto il momento attuale e l’eredità che viene dal passato, non mi attenderei grandi risultati. La mia impressione è che questa operazione andasse fatta all’inizio del 2000, non adesso. Le nuove norme, infatti, non giocano più su un terreno vergine (com’era negli anni novanta), ma su un terreno arato dal fortissimo indebitamento degli Enti locali, nato sull’onda dell’illusione di una rapida, veloce e indolore dismissione dei beni pubblici (che non c’è stata). In pratica, lo Stato e tra gli enti locali soprattutto le Regioni, che non riuscivano a vendere immediatamente i propri immobili, sono riusciti ad incassare in anticipo il valore delle vendite grazie ai prodotti finanziari (cartolarizzazioni, fondi immobiliari). Quei prodotti, però, si giustificano solo se poi si riesce a vendere. Il rischio è che alcuni Enti si troveranno presto nella posizione di vendere immobili non per fare nuova cassa e nuova valorizzazione, ma per pagare i debiti della mancata dismissione degli immobili precedenti.

Una mancata dismissione dovuta a cosa?
Proprio ai fattori di cui parlavo prima, cioè le regole sulla circolazione dei beni pubblici e sulla loro destinazione urbanistica, che rendevano talmente oneroso, lento e insicuro il processo di alienazione da allontanare gli investitori privati. Pensiamo al fatto che il settore di maggiore sofferenza è stato la dismissione degli ex beni dell’esercito, che erano proprio quelli che non servivano più. Consideriamo, poi, che questo è avvenuto in pieno boom edilizio immobiliare; immaginiamo cosa accadrebbe oggi, con il mercato in piena recessione. Inoltre nella vendita dei beni c’è una grande remora da parte degli enti pubblici, perchè se non si raggiunge un adeguato prezzo di mercato è potenzialmente aperta la strada alla responsabilità erariale da parte della Corte dei Conti. Anche questo rende complessa l’alienazione: se un privato ha un bene, in caso di bisogno può venderlo sottocosto, cosa che invece un Ente non può fare.

Questa è, in qualche modo, una risposta anche per chi solleva preoccupazioni riguardo a una “svendita” del patrimonio immobiliare pubblico?
Le esigenze di conservazione del patrimonio immobiliare sono molto importanti, però non dobbiamo dimenticare un dato di fatto: il nostro Paese ha avuto il problema di vendere i beni inutili (e non c’è riuscito), non quello di conservare i beni utili, che non sono mai stati venduti. A me pare che la “svendita” sia un rischio astratto. Negli ultimi 15 anni si è sempre cercato un equilibrio tra l’esigenza di vendere ciò che non si è in grado di mantenere – garantendo una migliore utilizzazione dei beni e sgravando lo Stato dal costo della loro manutenzione – e l’esigenza di garanzia. Dalla fine del ’99, poi, è diventata prevalente un’esigenza di cassa pura e tutti noi abbiamo temuto un’alienazione incontrollata dei beni. La verità è che, dati alla mano, non è stato venduto nemmeno ciò che doveva essere venduto. Poi, ovviamente, se parliamo di beni di particolare rilievo, c’è sempre l’intervento delle amministrazioni deputate alla tutela. I vincoli di questi beni non decadono con le nuove norme: ad esempio, per i beni culturali restano in piedi i controlli già previsti per legge.

Questi argomenti e il tema delle opportunità che una gestione strategica del patrimonio immobiliare potrebbe offrire agli enti locali (in termini di sviluppo del territorio e di rispetto del patto di stabilità interno) verranno approfonditi giovedì 30 ottobre a Cesena, in occasione di un convegno organizzato da FORUM PA, Comune di Cesena e Daedala, con il patrocinio di ANDIGEL (Associazione Nazionale dei Direttori Generali negli Enti Locali), Federsanità e Banca Monte dei Paschi di Siena.

Per saperne di più sui patrimoni immobiliari pubblici e patrimonio dello Stato naviga su SaperiPA.

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