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Crisi, lavoro e scuola in Italia. Come se n’esce?

L’attuale crisi finanziaria, che dagli Stati Uniti ha finito per colpire il mondo intero e direttamente o indirettamente milioni o miliardi di persone, pone non pochi problemi a organismi internazionali, governi nazionali e singoli cittadini.
Per evitare che la crisi diventi una catastrofe, gli organismi internazionali e i governi nazionali dovranno trovare per il sistema finanziario mondiale e nazionale regole certe, in modo che anche le responsabilità della gestione di immensi patrimoni di terzi siano certe.
Anche i singoli cittadini dovranno imparare a riscoprire il valore del denaro e del lavoro. Il denaro è un mezzo non un fine. La ricchezza non si crea con la speculazione ma col lavoro, con la trasformazione delle materie prime, con gli scambi, con i servizi. In questi ultimi anni, non solo in America, la possibilità di “fare denaro” al di fuori del lavoro ha contaminato milioni di persone. Forse anche per questo il lavoro ha perso valore e non è stato remunerato quanto merita. Anche la scuola sembra aver dimenticato che oltre a elargire sapere deve elargire competenze per saper lavorare.
In queste settimane si è tanto parlato di scuola, soprattutto in Italia, ma quasi mai di orientamento scolastico e professionale. Una lacuna grave, per uno che osserva le cose italiane dalla Svizzera, dove il legame tra la scuola e il lavoro è molto forte e dove l’orientamento scolastico e professionale è efficiente. Perché, in Italia, dopo la scuola dell’obbligo sembra che non esistano altre alternative alle scuole superiori e all’università? E all’università ci s’iscrive in funzione dei propri gusti o anche in funzione di una probabile attività futura in un determinato campo?
E’ risaputo e confermato dalle classifiche internazionali che la scuola italiana non funziona come dovrebbe e sicuramente potrebbe. Sbaglierebbe tuttavia chi pensasse che per riformare la scuola dell’obbligo basti introdurre il voto in condotta o l’insegnante unico. Ma sbaglierebbe ancor di più chi pensasse che per migliorare la scuola italiana basterebbe immettervi più soldi. Il sistema scolastico italiano, per essere risanato, ha soprattutto bisogno di un riordino, di insegnanti preparati e motivati, di genitori che sostengono gli sforzi degli insegnanti (e non il contrario), di maggiore impegno e disciplina da parte degli allievi e anche, perché no?, di aule, palestre e laboratori bene attrezzati. Quanto ai soldi, basterebbe utilizzare quelli che si ricaverebbero eliminando gli sprechi. La protesta per una scuola migliore dovrebbe cominciare da questa rivendicazione. Col ricavato si potrebbe anche, come sarebbe giusto, retribuire meglio gli insegnanti virtuosi. E non si dica, per favore, che premiare il merito sia discriminatorio o violi il principio dell’uguaglianza.
Nel calderone della protesta per la scuola, ma soprattutto contro la ministra Gelmini, si è anche sollevato il problema delle poche risorse destinate alla ricerca nelle università italiane, addossandone la responsabilità al governo per i tagli decisi nella legge finanziaria.
Il richiamo alla ricerca mi sembra sacrosanto. Infatti, senza ricerca un’università e un Paese s’impoveriscono. Non bisogna tuttavia dimenticare che per fare ricerca efficiente e d’avanguardia occorre una massa critica non solo di finanziamenti, ma anche di insegnanti e di studenti. Dire che in Italia la ricerca sia trascurata è innegabile, ma dire che manchino i finanziamenti necessari non è affatto evidente. Infatti i finanziamenti ci sono ma sono spesi male. Lo stesso si potrebbe dire per gli insegnanti, dispersi in una miriade di corsi spesso senza capo né coda, ossia senza sbocchi. Per recuperare i finanziamenti e gli insegnanti necessari basterebbe sopprimere quelle cattedre che non sono in grado di fare vera ricerca. La protesta, a mio parere, andrebbe orientata piuttosto in questa direzione e non nel reclamare ulteriori risorse, che rischierebbero di accrescere gli sprechi. Che senso ha, in alcune università, una miriade di insegnanti per pochissimi studenti? Che senso hanno centinaia di facoltà con poche decine di iscritti? Che senso ha il proliferare a dismisura di sedi distaccate di alcune università, senza che alcuna punti all’eccellenza? In queste condizioni è impossibile una ricerca moderna competitiva.
Non credo pertanto che la scuola italiana soffra per mancanza di soldi. Sono anzi convinto che con gli stessi soldi, dalle primarie all’università, potrebbe funzionare meglio e dare risultati migliori. Basterebbe esigere ad ogni ordine e grado maggiore competenza e motivazione da parte dei docenti (da retribuire sicuramente meglio, se meritevoli) e maggiore impegno e responsabilità da parte di allievi e studenti, riordinare il sistema universitario in funzione dei bisogni reali della società e dell’economia, operare tagli selettivi negli organici organici in funzione di un equilibrato rapporto insegnante/studenti secondo parametri europei, non tollerare sprechi, limitare l’ingresso ai capaci e meritevoli per evitare che il tasso di abbandono sia doppio di quello dei Paesi industrializzati, puntare soprattutto su quelle università e quei centri d’eccellenza che pure esistono in Italia.
Sono convinto anch’io che l’Italia ce la può fare, ma la ricetta va trovata più nell’assenso che nel dissenso. Lasciando invariata la situazione, nemmeno col doppio di risorse la scuola italiana, dall’asilo all’università, riuscirà a mettersi al passo con i grandi Paesi europei. E poi, francamente, col debito pubblico che si ritrova e in presenza dell’attuale crisi mondiale, se l’Italia vuol esser competitiva, non ha altra scelta che quella di una migliore destinazione delle risorse disponibili, tagliando rami secchi o sterili, introducendo anche nel pubblico criteri di produttività e responsabilità, premiando capaci e meritevoli, collaborando maggiormente col settore privato soprattutto nella ricerca. Tutto il resto mi sembra chiacchiera e questo non è più il tempo delle parole ma delle decisioni e dei fatti.

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