Gravi pericoli che corre l’economia italiana
Dopo il “credit crunch” si rischia la deindustrializzazione
di Enrico Cisnetto
Dal “credit crunch” alla deindustrializzazione. E’ questo il pericolo più grave che l’economia italiana corre, come conseguenza di quella miscela esplosiva rappresentata dal sommarsi della illiquidità generata dalla crisi finanziaria mondiale e dei difetti strutturali del nostro sistema produttivo. Per primo si è messo in moto il fenomeno di rarefazione del credito, dovuto al fatto che le banche preferiscono detenere moneta piuttosto che farla circolare sul mercato, sia quello interbancario – e l’Euribor che è rimasto ai massimi storici nonostante il taglio di mezzo punto dei tassi deciso dalla Bce lo dimostra – sia quello dei prestiti alle imprese. Poi, il tanto temuto contagio con l’economia reale sta avvenendo tramite il nastro trasmettitore del calo dei consumi e della domanda. Nello scenario internazionale, tre settori come l’automotive, il turismo e l’informatica, per esempio, ne stanno già clamorosamente risentendo. Ma se a livello globale siamo alle prime avvisaglie, l’Italia è decisamente messa peggio, perché le cattive novità s’inseriscono in un contesto di declino industriale da tempo in atto, come dimostrano – ahinoi – gli ultimi dati su cassa integrazione e produzione industriale.
La prima ha visto un aumento esponenziale: le ore sono aumentate a settembre del 15,1% rispetto allo scorso anno, ed è un incremento che colpisce tutti i settori – compresi quelli finora al riparo, come il “bianco” – e, cosa significativa, riguarda le regioni più avanzate (Marche +106%, Veneto +46%). Per quanto riguarda la produzione, gli ultimi dati Istat – è scesa del 2,4% da inizio 2008 e del 5,3% anno su anno – dimostrano che i cantori delle virtù dell’export fanno male i loro conti.
Ma questi due fattori congiunturali sono soltanto l’ultimo campanello d’allarme, e non devono far dimenticare che, rispetto ai nostri competitori, noi scontiamo già un gap storico: quello della (mancata) crescita. Su questo fronte, infatti, non servono le ultime stime del Fondo Monetario Internazionale per certificare che siamo in recessione e che ci resteremo anche l’anno prossimo. Lo si sapeva già da mesi, e si tratta di un risultato “coerente” con un percorso che dura da almeno un quindicennio, periodo in cui abbiamo accumulato un “buco” di crescita di 15 punti di pil rispetto ai paesi di Eurolandia e di 35 con gli Stati Uniti. Con questi formidabili svantaggi competitivi, è chiaro quale sarà l’impatto sul sistema-Italia di un’ulteriore contrazione della produzione. Anche perchè, mentre la crisi creditizia almeno ha innescato un virtuoso movimento di ristrutturazione dell’intero sistema bancario a livello globale – leva finanziaria più corta e merito di credito più alto – sul decotto panorama industriale italiano non ci sono segnali di cambiamento in arrivo.
Anzi, il rischio è che entrino in crisi anche quelle aziende (poche ma buone) e quei comparti merceologici (nicchie ma di qualità, tipo la meccanica di precisione o le macchine industriali) che erano riusciti a superare l’ostacolo, alto e difficile, della globalizzazione. Insomma, l’autunno dell’industria italiana sarà caldissimo. Meglio saperlo prima. (www.enricocisnetto.it)