L’Accordo d’emigrazione del 1948 tra l’Italia e la Svizzera fu un buon accordo?

Occorre anzitutto ricordare che nel 1948 sia l’Italia sia la Svizzera avevano una lunga esperienza non solo di emigrazione, ma anche di rapporti bilaterali in materia. Durante la guerra, il tradizionale flusso migratorio si era solo interrotto. Tanto è vero che riprese già nel 1946. Eppure l’Accordo d’emigrazione tra la Svizzera e l’Italia del 1948 rappresenta un nuovo punto di partenza molto importante per la storia dell’immigrazione italiana del dopoguerra in questo Paese.
A distanza di 60 anni è lecito chiedersi se quell’Accordo è stato un buon accordo. Per il fatto che sia durato per oltre quindici anni, fino alla sua sostituzione con quello del 1964, verrebbe spontaneo rispondere affermativamente. Osservato nell’ottica delle conseguenze che ha provocato, la risposta andrebbe tuttavia quanto meno diversificata a seconda dei protagonisti: la Svizzera, l’Italia e, ben inteso, gli immigrati italiani in Svizzera.
Per la Svizzera si è trattato sicuramente di un buon accordo. Nel 1945, uscita indenne dalla guerra e con un apparato produttivo messo sotto pressione per poter soddisfare le richieste di beni provenienti da mezzo mondo, aveva urgente bisogno di manodopera. Non potendola ottenere dalla Germania e dall’Austria (perché le potenze occupanti non concessero il permesso) e nemmeno dalla Francia (perché non aveva esuberi da collocare), trovar l’Italia disposta a far da “serbatoio” di lavoratori per l’economia svizzera, fu indubbiamente un buon “affare”. Tanto più che quasi tutti i punti dell’accordo erano favorevoli alla Svizzera.
Prima ancora che l’Accordo fosse concluso, avevano potuto varcare i confini tra i due Paesi 48.808 lavoratori italiani nel 1946 e 105.112 l’anno seguente, senza contare i numerosissimi clandestini. Negli anni successivi gli espatri furono di consistenza molto variabile perché nell’Accordo era scritto nero su bianco che si trattava di “mano d’opera stagionale o ammessa a titolo temporaneo”, il che significava (ma non poteva essere scritto) “in funzione dei bisogni dell’economia”.
Per l’Italia si è trattato anche di un buon accordo, ma fortemente condizionato dalle esigenze del momento. Non si deve infatti dimenticare che l’Italia era fortemente preoccupata della diffusa disoccupazione (soprattutto nel centro-nord) ed era opinione comune del governo, delle forze politiche, dei sindacati che non ci fosse altra soluzione che agevolare l’emigrazione. Nei primi anni del dopoguerra si era calcolato che, per non aggravare la situazione e prevenire conflitti sociali importanti, l’Italia doveva avviare all’emigrazione 450-480 mila lavoratori l’anno. Per questo, i primi governi del dopoguerra furono molto solleciti nel firmare accordi d’emigrazione con qualunque Paese richiedesse lavoratori italiani.
Un’altra ragione che spingeva i governi a favorire l’emigrazione era la prospettiva di poter ripianare i bilanci con le rimesse degli emigrati. Un argomento, se si vuole, non di poco conto, data la situazione finanziaria di un Paese sconfitto in guerra e la necessità di massicci investimenti per riavviare l’economia. Dalla Svizzera, poi, oltre alle rimesse, sarebbero entrati direttamente nelle casse dello Stato tasse di visto sui contratti di lavoro per un importo che si sarebbe aggirato sui 100 milioni di lire l’anno.
In breve, garantendo alla Svizzera la possibilità di attingere a piene mani lavoratori italiani dal proprio mercato del lavoro, soprattutto nelle regioni del nord come chiedeva la Svizzera, l’Italia aveva trovato un buon partner. Anche per questo non insistette troppo su certe questioni riguardanti il reclutamento, il termine per ottenere il permesso di domicilio a tempo indeterminato, la verifica dell’applicazione delle varie clausole dell’Accordo, le condizioni di vita dei lavoratori una volta entrati in Svizzera, ecc.
Per gli emigrati il giudizio sull’Accordo è molto più complesso, anche perché tutto è stato deciso passando sulle loro teste, come si fosse trattato di una “merce di scambio”. Non furono né interpellati né alcun loro rappresentante fu coinvolto nella trattativa. Occorre dire tuttavia che molti lavoratori disoccupati erano comunque intenzionati a intraprendere la strada dell’emigrazione in cerca di fortuna, ma anche rischiando l’insuccesso totale. Meglio dunque se questa ricerca poteva avvenire nel quadro di un accordo tra Stati. Tanto più che sia la delegazione italiana sia quella svizzera furono attente a evitare che dall’Accordo potessero derivare spese a carico del lavoratore (ad es. per il passaporto, il viaggio, ecc.) o discriminazioni rispetto ai cittadini svizzeri. Anzi, le due delegazioni tennero a precisare che “i lavoratori italiani dovranno beneficiare in Svizzera dello stesso trattamento dei nazionali per quanto concerne le condizioni di lavoro e di rimunerazione” e in caso di reclami “godranno degli stessi mezzi giuridici dei cittadini svizzeri per farli valere”.
Qualche anno prima dell’Accordo, nel 1946, il socialista Pietro Nenni aveva detto che l’Italia avrebbe potuto risolvere il problema dell’eccedenza di manodopera disoccupata con l’emigrazione, ma aveva anche avvertito che si doveva assicurare loro “condizioni di vita e di lavoro che non ne facciano dei paria, ma dei collaboratori della rinascita economica dell’Europa e del mondo”. Purtroppo l’Accordo del 1948 non affronta per nulla né le condizioni di vita né le condizioni di alloggio soprattutto degli stagionali. E’ difficile imputare per intero a questa trascuratezza le grandi sofferenze patite da molti immigrati soprattutto stagionali, ma non c’è dubbio che sotto questo aspetto l’Accordo è stato molto carente. E’ stata disattesa, almeno in parte, quella parte dell’articolo 35 della Costituzione appena approvata che, insieme alla libertà di emigrare, garantisce che lo Stato “tutela il lavoro italiano all’estero”.
Una volta varcata la frontiera e avviati al lavoro, gli immigrati italiani furono e si sentirono sovente come abbandonati a se stessi, in balia dell’andamento dell’economia e dei datori di lavoro, della polizia degli stranieri, degli umori di movimenti politici in cerca di capri espiatori nelle situazioni difficili, incapaci di esprimersi e di difendere i propri diritti, senza una vera tutela, abbandonati e dimenticati dalle autorità italiane, isolati, in condizioni di alloggio spesso miserevoli, senza il sostegno della famiglia, privi di un’efficace rete di protezione e con tanta nostalgia nel cuore.
Non si può tuttavia generalizzare. Per la maggior parte degli immigrati che sono transitati in Svizzera non c’è stato nemmeno il tempo di misurare vantaggi e svantaggi. Per coloro invece che hanno resistito e sono rimasti a lungo in Svizzera non c’è dubbio che nella maggioranza dei casi si è trattato in fin dei conti di un’esperienza utile. E i risultati si vedono. La seconda e a maggior ragione la terza generazione non solo non hanno problemi di segregazione o discriminazione, ma hanno raggiunto un tale grado d’integrazione da sentirsi parte integrante di questo Paese nella società, nella cultura, nell’economia e persino spesso nella politica. E’ tutto è cominciato con quell’Accordo del 1948.

Berna, 15.10.2008

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