1948-2008: 60 anni dal primo Accordo d’emigrazione del dopoguerra fra l’Italia e la Svizzera — una dolorosa necessità !

La storia dell’emigrazione italiana in Svizzera non ha una data d’inizio perché il passaggio della frontiera, da una parte e dall’altra, per motivi di lavoro c’è sempre stato da quando esiste appunto una frontiera che separa i due Paesi. In epoca moderna, dopo la costituzione della Svizzera in Stato federale (1848) e dell’Italia in Stato unitario col Regno d’Italia (1861), la prima data ufficiale relativa all’emigrazione italiana in Svizzera è quella del 22 luglio 1868, quando tra i due Paesi venne firmata la “Convenzione di stabilimento fra la Svizzera e il Regno d’Italia”. Questo primo accordo ha regolato i flussi migratori praticamente fino a quando la prima guerra mondiale pose di fatto fine alla libera circolazione delle persone dei due Paesi e a quella che si potrebbe definire la prima fase dell’emigrazione italiana in Svizzera.
Nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale il flusso migratorio tra l’Italia e la Svizzera fu molto ridotto fino ad azzerarsi negli anni della guerra. Non appena le armi cessarono di martoriare l’Europa belligerante, l’emigrazione si ripropose per l’Italia come un’esigenza primordiale per attenuare la pressione sociale della diffusa disoccupazione, soprattutto a Nord. Per questo i primi governi del dopoguerra, occorre dirlo, furono attivissimi nel cercare e firmare accordi d’emigrazione, praticamente con tutti i Paesi interessati ai migranti italiani. In pochi anni vennero firmati accordi d’emigrazione con il Belgio (capofila con l’accordo del 23.6.1946), il Lussemburgo, l’Argentina, la Svezia, la Francia, la Gran Bretagna, l’Olanda, il Brasile, l’Uruguay, l’Australia, Il Canada, e persino con la Cecoslovacchia e l’Ungheria.
Con la Svizzera andò un po’ più per le lunghe. Il primo accordo d’emigrazione tra l’Italia e la Svizzera venne infatti firmato solo il 22 giugno 1948. In realtà la Svizzera, che aveva conservato praticamente intatto il suo potenziale industriale e aveva urgente bisogno di manodopera (soprattutto nei rami dell’agricoltura, delle costruzioni, dell’industria tessile e dei servizi alberghieri e della ristorazione), è stata probabilmente la prima nazione a richiedere lavoratori italiani, nell’ottobre 1945. Già per l’anno seguente erano pronte per gli italiani più di 20.000 autorizzazioni, che sarebbero state portate, volendo, a oltre 90.000 per il 1947.
Agli inizi, gli ottimi rapporti tra l’Ufficio federale dell’industria, delle arti e mestieri e del lavoro (UFIAML) e la Legazione italiana a Berna (che non era stata ancora portata al rango di ambasciata) sembravano più che sufficienti ad avviare una proficua collaborazione. Nel 1947, quando il direttore dell’UFIAML informò il Dipartimento federale dell’economia pubblica dei risultati degli accordi presi con la Legazione italiana, non esitò a manifestare la propria soddisfazione del fatto che i lavoratori italiani avevano dato buona prova di sé e godevano di grande considerazione.
Già dal 1946, dunque, la Svizzera aveva nuovamente spalancato la porta dell’immigrazione e da allora vi sono transitati per quasi un trentennio centinaia di migliaia di lavoratori italiani che hanno cercato e in gran parte trovato in questo Paese la soluzione ai loro problemi esistenziali e al sacrosanto desiderio di una vita migliore per sé e per la loro famiglia.
Per chi volesse ricostruire anche sommariamente l’arco di tempo che ci separa da quegli anni, i preamboli e la conclusione del primo accordo d’emigrazione tra l’Italia e la Svizzera sono fondamentali non solo per capire la politica migratoria del governo federale, ma anche l’evoluzione non facile ma nel complesso positiva della collettività italiana in Svizzera.
Dal punto di vista italiano, per tutte le forze politiche e sindacali del dopoguerra, pur con alcune differenze, era chiaro che l’emigrazione rappresentava “un’esigenza fondamentale per l’Italia” (Nenni, socialista), benché una “dolorosa necessità” (Di Vittorio, sindacalista). Per il governo era addirittura una “condizione pregiudiziale” per i vantaggi ch’essa rappresentava non solo sotto l’aspetto economico (rimesse per il riequilibrio della bilancia dei pagamenti), ma anche per i suoi riflessi sociali. L’emigrazione andava pertanto agevolata. A questo punto è facile capire quanto la domanda giunta dalla Svizzera fosse benaccolta.
Sul versante svizzero, la prospettiva era alquanto diversa. Il Consiglio federale aveva fissato chiaramente alcune condizioni al reclutamento della manodopera estera. Per esempio, doveva essere ben chiaro che i permessi d’immigrazione sarebbero stati quasi esclusivamente temporanei e non a tempo indeterminato. Questa condizione era dettata non solo da esigenze socio-politiche (per evitare una crescita eccessiva della popolazione residente e possibili conflitti sociali tra stranieri e svizzeri), ma anche e soprattutto da esigenze di politica economica (paura di dover far fronte a un numero elevato di disoccupati in caso di recessione).
Poiché sul momento sembrava, tutto sommato, più importante che fossero tanti a lasciare l’Italia e tanti a venire a lavorare in Svizzera, non ci fu praticamente discussione (tranne che su pochi articoli) quando nel 1947 l’Italia chiese alla Svizzera di regolamentare il reclutamento e il flusso migratorio in un accordo formale.
Voci critiche rimproverarono alla delegazione italiana guidata dal ministro plenipotenziario Egidio Reale di non essere riuscita ad ottenere tutto quel che chiedeva e di essersi accontentata di quanto era disposta a concedere la Svizzera. Ma date le circostanze probabilmente non poteva aspettarsi di più. La debolezza dell’Italia nella trattativa dipendeva dal forte interesse che aveva a ridurre la pressione dei disoccupati e dalla speranza di poter riequilibrare la bilancia dei pagamenti con le rimesse degli emigrati.
In pratica, la trattativa fu semplice e amichevole. La delegazione italiana fu moderata nelle richieste e la delegazione svizzera accolse quasi integralmente le proposte italiane. Probabilmente entrambe le delegazioni non avevano interesse ad andare oltre quella buona pratica che era stata collaudata nel 1946 e 47. Da entrambe le parti si nutriva anche la fiducia che la collaborazione italo-svizzera sarebbe sempre proseguita all’insegna della solida amicizia che legava i due Stati e che si era manifestata anche nel corso della trattativa.

Berna

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