Morti sul lavoro: non sono fatalita’

Ha ragione Marco Bazzoni, rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Ce lo dice, senza stancarsi, ogni giorno. Tutto ciò che si fa per le morti sul lavoro è pochissimo, è niente. E’ vero. E si ha la sensazione che non ci sia rimedio.
Le morti sul lavoro appaiono come le morti sulla strada. Accadimenti casuali e fatali. Inevitabili. La casualità generica induce alla percezione e alla sintesi generica. E intanto una quota, ignota, delle morti sulla strada appartiene al novero delle morti, se non sul lavoro, per il lavoro. E’ perfino inutile spiegare.

Ma è la casualità stessa una categoria offensiva. Si può ammettere che se milioni di persone transitano sulle strade a tutte le ore, in tutte le condizioni climatiche, con tutta la gamma dei mezzi possibili e tutta la varietà delle condizioni di manutenzione, una parte incontri per sua sfortuna il caso nefasto. Tuttavia la frequenza statistica con cui lo si incontra è però modificabile con tanti accorgimenti: maggiore sicurezza dei mezzi, rispetto delle norme di circolazione, guida in condizioni non alterate da alcool o stupefacenti, eccetera. Una previsione statistica non ha in sé nulla di fatale: la si può modificare con l’applicazione dei mezzi opportuni. Ma lasciamo pure che una quota di morti sulla strada sia inevitabile sempre e comunque.

Attribuire alle morti sul lavoro la stessa inevitabilità dovrebbe essere invece inaccettabile. Anche lasciando al caso la sua libertà incontrollabile, le condizioni di lavoro sono ben più prevedibili. Il rischio vi è molto più definibile e individuabile. O almeno dovrebbe. L’applicazione dell’ingegno, l’osservazione minuziosa delle precauzioni, la formazione professionale adeguata, lo studio dei tempi, la verifica preliminare delle condizioni: tutto potrebbe aiutare a ridurre il rischio e a confinarlo davvero all’azione del caso.

Ciò che vediamo appare invece come il prodotto della necessità. Lavorare uccide. Lavori, dunque puoi morire. E in certi casi: lavori, dunque devi morire.
Poi può arrivare la retorica (esercitata da chi non muore) sulle vite spezzate di chi se ne va e le vite orfane di chi resta. Lamentazioni che sanno di esorcismo non per annichilire il fato inevitabile ma per attenuare il dolore di chi soffre.

Eppure tutti sanno, tutti sappiamo perché le morti sul lavoro non diminuiscono, aumentano, si ripetono con la regolarità dei fenomeni atmosferici. Perché la vita di chi svolge lavori a rischio vale poco. E la sua salvaguardia conta meno della velocità d’esecuzione dei lavori. E la stanchezza non è misurata con il metro della resistenza umana ma con i tempi medi di produzione. E il costo delle misure di sicurezza è eccessivo per l’economia della produzione. E la sorveglianza pubblica sulla fisiologia delle imprese è ridotta ai minimi termini.
Si possono spendere miliardi per incoraggiare il consumo, ma non si trovano fondi per prevenire gli incidenti sul lavoro. Sono fatali. Devono accadere. Accadono.

Si trovano capitali per le aziende in crisi, ma solo poche lire vanno ai risarcimenti per le morti sul lavoro. E capita che i morti possano essere rimproverati di non aver attivato in tempo un’assicurazione (privata).
La sacralità della vita, che sentiamo invocare in qualche angolo d’ospedale dove un corpo immobile da anni non può più neanche immaginare il sollievo di una fine misericordiosa, nel mondo del lavoro normale, faticoso, poco pagato, non esiste.

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