Crisi finanziaria e nuovi modelli culturali
Fine dell'impero americano o fine del pensiero unico?
di Elio Di Caprio
Quando ci sarà il “day after” e quanti morti e feriti conteremo una volta che si saranno esauriti tutti gli esiti della crisi finanziaria mondiale? Nessuno lo sa. Intanto L”Europa unita, o quasi unita, prova ad esorcizzare il peggio parlando di crisi finanziaria americana e non mondiale. Ma non è così. Gli effetti a cascata sull”intera economia mondiale sono facilmente prevedibili anche senza agitare lo spauracchio di un altro “29 che, non dimentichiamolo, dette ai regimi autoritari di destra e di sinistra nuova linfa a fronte di quello che allora appariva come il collasso definitivo del sistema liberal-capitalistico. I rimedi in corso e quelli ancora possibili non possono cancellare i danni già prodotti. Il paradosso di questa fase storica dell”Occidente euro-americano è che gli USA da una parte possono permettersi il lusso dopo l”11 settembre di agire all”estero in maniera unilaterale, senza consultare gli alleati e accollandosi i costi delle “guerre di sicurezza” dall”Iraq all”Afghanistan.
Dall”altra è proprio la finanza USA fuori controllo ad aver “unilateralmente” inquinato a piene mani di titoli finanziari “tossici”, di debiti sui debiti, i quattro angoli del pianeta, compresa l”Europa, senza che nessuno abbia avuto la possibilità o l”interesse a porre alcun argine. Ci si può disinteressare di quanto accade in Iraq o in Afghanistan e dell”enorme dispendio finanziario per guerre così lontane, come se fosse un problema esclusivamente americano, ma nessuno ha potuto e può prendere le distanze da quanto succede nella borsa di New York. Siamo tutti coinvolti nel mondo globalizzato dove, come prima e più di prima, non si produce nulla a costo zero senza vincitori e senza vinti. O crediamo veramente che si possa chiudere la stalla quando i buoi sono scappati e stanare, come vorrebbe Sarkozy, gli speculatori e magari punirli? A disastro avvenuto quale tribunale internazionale invocare contro gli untori nel mondo globalizzato dove è stata consentita ogni opacità e ogni gioco d”azzardo, talvolta con la complicità o l”implicito assenso degli stessi governi?
Qualcuno già pensa che questo sia l”inizio della crisi dell””impero” americano e dei suoi modelli di vita collettivi. Se così fosse non saranno certo gli avvertimenti ed i ragionamenti alla Tremonti ad impedire un tale esito. Certo quanto succede costringe comunque a ripensare i modelli di riferimento e la cultura globale ( il pensiero unico o quasi unico) che ha accompagnato lo sviluppo mondiale negli ultimi 50 anni e in specie negli ultimi venti, quando anche in Italia è invalso il mito della deregolamentazione dei mercati, delle privatizzazioni curate da banche d”affari che ora non esistono più, della creazione di valore per gli azionisti come unico criterio guida d”impresa, delle stock options distribuite ai finanzieri d”assalto..
E” un mondo che sta crollando?
Ora si rispolverano vecchi testi, si riscopre addirittura il Keynes degli anni “30, si invoca la necessità di arrivare ad un capitalismo regolamentato dallo Stato o dagli Stati. La politica dovrebbe riappropriarsi dei suoi mezzi e del suo potere a fronte dell”economia e ciò non può avvenire che con lo strumento Stato, il tanto vituperato Stato che si diceva dovesse scomparire in un mondo senza frontiere. Si tratta di contenere gli sviluppi malvagi del capitalismo finanziario, non di sovvertire il capitalismo in sè dopo che il marxismo applicato alla realtà si è dimostrato un”alternativa peggiore del male a cui voleva porre rimedio. Come fare?
Ci si ritrova a fare i conti con il problema di sempre che ha più volte richiamato la riflessione e le critiche di intellettuali e politici nel secolo scorso, dei conservatori come dei socialisti, ogni qual volta la “distruzione creativa” del capitalismo ha corso il rischio di diventare devastazione sociale a causa delle inevitabili speculazioni finanziarie che ne hanno accompagnato lo sviluppo.
New Deal roosveltiano, terza via tra capitalismo e socialismo, liberal-socialismo, economia sociale di mercato, sono stati e sono tutti affannosi tentativi di correzione delle falle di un capitalismo non da rinnegare ma da profondamente correggere.
Nessuno può contestare il binomio attualmente vincente ed auto referente di economia di mercato- capitalismo, ma poi c”è sempre in agguato il terzo incomodo, quello che Tremonti chiama “mercatismo”, il prevalere cioè del libero mercato senza regole, senza limiti e senza ostacoli, il nemico invisibile ( o troppo visibile) che attraverso la finanza contraddice la stessa essenza del capitalismo, creando ricchezze fasulle senza fatica. E” stato finora questo della speculazione che profitta del libero mercato un rebus irrisolvibile, una deriva ineluttabile che ci trasciniamo da più di un secolo ma già ci sono le prime avvisaglie di un cambiamento di rotta che influenzerà prima o poi i modelli culturali e politici prevalenti dell”Occidente.
A questo punto quale sarà il modello economico che prevarrà con il progredire o il regredire della globalizzazione, quale Paese ne sarà leader e a chi farà più comodo? Oppure la globalizzazione finanziaria ed economica riceverà un poderoso alt e diventerà reversibile con effetti a catena che possono mettere in gioco persino la costruzione europea?
Nessuno lo sa, sono ancora tutti al capezzale del malato. Al di là dell”entità del disastro ancora da misurare una cosa è certa: non è finita la Storia, anzi il suo pendolo continua ad oscillare. Quello che è finito è il pensiero unico di uno sviluppo indefinito grazie ai prodigi dell”economia di mercato. (Terza Repubblica)